Lettera al mio candidato
Caro Candidato,
oggi è il giorno delle elezioni e io ho appena compiuto questo gesto semplice e al tempo stesso sacro che è scrivere il tuo nome sulla scheda e infilarla nell’urna.
Caro Candidato,
oggi è il giorno delle elezioni e io ho appena compiuto questo gesto semplice e al tempo stesso sacro che è scrivere il tuo nome sulla scheda e infilarla nell’urna.
Ciao piccola Aurora,
perdonami se questa lettera ti apparirà incerta e un po’ confusa. Mi trovo a scriverti in uno spazio ristretto con un mozzicone di matita che avevo nascosto nella scarpa destra. La carta è quella che è… un vecchio giornale ingiallito che ho trovato in parlatoio. Leggo a fatica la data sul bordo: 22 novembre 2011. Sembra passato un secolo (in realtà molto meno). A quell’epoca, ti sembrerà strano, ogni mattina ci si recava, prima di andare a lavorare, ad un’edicola, dove erano impilate colonne di giornali dalle testate più fantasiose: la Gazzetta, Il Fatto, il Foglio, il Sole, La Voce… C’era un Corriere che si chiamava “della sera” ma usciva la mattina e nessuno si domandava il perché. Quella piccola stranezza cominciava ad abituarci al fatto che non sempre ciò che leggevamo sui giornali corrispondeva alla verità. Ricordo che mi piaceva sostare davanti all’edicola, guardare di soppiatto i titoli cubitali che davano le notizie. Quando pioveva l’edicolante stendeva un foglio di plastica trasparente per proteggere i fogli. Era un gesto commuovente e pieno di tenerezza: sembrava una mamma che stende la coperta sui figli quando fanno la nanna. Mi piaceva guardare i giornali, sentire l’odore della carta, stupirmi dell’inventiva dei cronisti che sapevano presentare fatti apparentemente insulsi come novità straordinarie. A quel tempo, non ci crederai, c’era una moltitudine di partiti, di fazioni, di tifoserie. Inizialmente ciascuna promuoveva una diversa idea del futuro e della società contrapponendosi all’idea degli altri. Poi le idee sul futuro andarono svaporandosi e rimase solo la contrapposizione, la polemica, persino l’insulto. I giornali che dovevano portare le notizie divennero strumenti per canalizzare esclusivamente le opinioni. Fu quello il momento in cui cambiarono le cose: dapprima i commenti degli opinionisti servivano ad illustrare i fatti, consentivano di comprenderli nella loro giusta prospettiva. Il commento era al servizio della notizia. Poi, poco a poco, avvenne un capovolgimento: furono le notizie ad essere utilizzate a sostegno del commento. Quelle utili per dimostrare una certa tesi venivano selezionate, enfatizzate, imbellettate; quelle che utili non erano venivano scartate, nascoste, persino negate. La cosa inizialmente appariva evidente e quasi divertente: sembrava un gioco, come il nascondino: mostrare, nascondere: tutto era lecito pur di fare tana. Poi, dopo un po’, nessuno riuscì a distinguere quando si trattava di un gioco e quando no. La manipolazione dei fatti divenne una pratica consueta, abituale, sistematica. La pretesa di alcuni di sostenere che un fatto era vero e che un altro era falso venne guardata con sospetto e con crescente insofferenza. Chi erano costoro per pretendere di conoscere l’esattezza dei fatti? Con quale arroganza essi intendevano imporre la loro verità a quella degli altri?Anche i migliori tra i cittadini furono presi dal fastidio per tutto ciò che non veniva accompagnato dal dubbio, dalla sospensione del giudizio, da una prudente relativizzazione. La maggior parte però era indifferente, la verità di un principio stando sempre più nella utilità pratica che ciascuno sperava di ricavarne.
Avvenne poi che non ci furono più le parole per dirlo, perchè quelle che una volta avevano un significato poco per volta lo avevano perduto ed era stato loro attribuito uno diverso, imbastardito, a volte persino opposto. Si gridava “giustizia giusta!” ma ciò significava intimidazione, si invocava “libertà” ma si intendeva “impunità”. Si diceva “pace” ma si intendeva guerra preventiva. Il linguaggio , la parola erano traditi e così la verità che essi esprimevano.
Quando ero piccolo mi alzavo presto la mattina e andavo al mare per guardare sorgere il sole. La sua forza si sprigionava inizialmente con una lunga striscia rossa all’orizzonte che spingeva più in là la notte nel remoto universo. Ho sempre temuto l’oscurità e attendevo l’apparire del disco d’oro come la manifestazione di un salvatore. Il sole giallo sorgeva e dissolveva le mie paure. Lo contemplavo fino a quando la sua luce diveniva così forte da dover abbassare lo sguardo. Tornavo allora a casa tutto contento, fischiettando e saltando con un piede di qua e uno di là. Man mano che crescevo quel sole era stato sostituito da alcune parole maestre che avevo appreso al catechismo: “Non dire falsa testimonianza”. C’erano state poi le parole che il mio Capo Reparto ripeteva quando giocavamo a scalpo: “Lo scout è leale”. Esse guidavano e indirizzavano i miei passi. Non pretendevo di conoscere la verità così come non riuscivo a guardare il sole con gli occhi ma cercavo la sua luce.
Vedi carissima Aurora, quei giorni divennero ad un tratto lontani. Ho già detto di come ciò avvenne a poco a poco, senza che forse ce ne accorgessimo. Era come se una nebbia avesse avvolto la città. La luce del sole era persa, le figure divenute grigie e spesso indistinte. Cominciai a svegliarmi la notte di soprassalto preso da cattivi pensieri. La luce si era ammalata, la verità si era ammalata. Nessuno più credeva né all’una né all’altra. Parlavo con le persone, anche le più amate e le loro parole sembravano incerte, le frasi monche, i veri pensieri altrove. La verità delle nostre relazioni, dei nostri sentimenti mi sembrò ad un tratto dubbia, la fiducia mal riposta, ogni certezza infranta. Mi sembrava di camminare in una zona remota della città, piena di ombre minacciose, di cupe ciminiere, su enormi tapis roulant privi di sostegno, come dei sottili ponti tibetani che affondavano e rimbalzavano tra le sponde avvolte dalla nebbia. La verità si è ammalata, dicevo tra me e con essa si è ammalata l’amicizia, la speranza, la rabbia, l’amore…
Il Nuovo Governo non sembrava preoccupato anzi ebbi fin dall’inizio l’impressione che in qualche modo incentivasse questo sentimento di disorientamento. Molte iniziative vennero avviate per suggerire che la verità scientifica fosse controvertibile, quella morale opinabile, quella fisica subordinata all’imperfezione degli strumenti di misurazione, quella teologica frutto della fantasia distorta di eremiti medievali. Ovviamente per placare il sentimento di ansia collettiva che si diffuse vennero escogitati molti giochi e divertimenti. Vennero allestite discoteche sempre più grandi dove ascoltare musica sincopata e ballare fino allo sfinimento. Piccole pastiglie di extasy accompagnavano le notti insonni colorandole di immagini allucinate. L’attività sessuale era fortemente incoraggiata purché promiscua e svincolata da ogni relazione sentimentale. Dapprima essa era consentita solo ai giovani ma poi, grazie all’invenzione del Viagra, anche gli incanutiti poterono dedicarcisi dimenticando ogni diversa cura e preoccupazione. I giornali vennero poco a poco sostituiti da grandi schermi multicolori che distillavano notizie brevi, sempre più brevi, a volte anche semplici righe. Tutto doveva essere semplice, elementare. Ogni piazza, ogni strada, ogni vetrina di negozio rinviava e rimbalzava le immagini di questi schermi, a volte persino nei mezzanini delle metropolitane. L’interesse della gente veniva convogliato soprattutto su eventi che non avevano alcuna importanza per la loro vita reale: spettacoli di sport, di cinema, le previsioni del tempo… La gente veniva educata a vivere una vita di riflesso a disinteressarsi della propria esistenza e dedicarsi esclusivamente a quella di alcuni noti personaggi che in pratica vivevano al loro posto. Che poi l’esistenza di questi ultimi fosse reale non si può sicuramente dire. Come le divinità greche di un tempo essi vivevano in un Olimpo distante, passando le giornate in ozi e pettegolezzi. La loro forma estetica era perfetta, opera non certo di madre natura ma del bisturi, della liposuzione, del botulino e in qualche caso del photoshop. Divinità perfette e incorruttibili essi si affacciavano sul mondo dalle pagine dei rotocalchi e degli spot televisivi. Nessuno li ha mai incontrati dal vivo: dicono che la maggior parte di essi fosse solo un’invenzione della pubblicità e del Nuovo Governo ma questo noi non potremo mai con esattezza saperlo. Era forse tutto un sogno? Ma qual è la differenza tra la vita e il sogno, tra il reale e il virtuale? Tra il vero e il falso?
Aurora, il tempo stringe e devo giungere alla conclusione che forse già sai. La luce della luna entra stretta tra le sbarre che chiudono la finestra di questa Prigione. Ti avranno detto di come alcuni di noi si ribellarono, di come tentammo di persuadere i nostri concittadini dell’errore in cui stavano cadendo. Lessi su un libro questa frase “nel tempo dell’inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario” (la Fattoria degli animali, di George Orwell). Misi tutta la mia passione, la mia eloquenza, la mia forza d’animo per dimostrare che la realtà esiste, che la verità esiste, che la vita esiste. Ma vedi, quando la verità viene cancellata anche la menzogna è cancellata. Ciò che è falso diventa vero. Qualunque cosa può essere detta, anche la più assurda e insensata e nessuno può contestare che essa sia tanto vera (o tanto falsa – perchè ormai è lo stesso) quanto le altre cose che conosciamo. E non ci sono più cause giuste o ingiuste né tantomeno ragioni per lottare, per ribellarsi, per preparare una rivoluzione. Tutto questo il Nuovo Governo lo sapeva e lo approvava.
Fummo dapprima derisi, poi denigrati. Fummo quindi arrestati e interrogati. Vennero i dottori, gli psichiatri e altri intellettuali che non ricordo. Accesero le loro lampade frontali e ci esaminarono da vicino. Ci parlarono della realtà e dell’illusione, ci spiegarono che il bianco era nero, che la guerra è pace, che la paura è coraggio, che la vendetta è amore… La verità è liquida argomentarono, non c’è distinzione tra sogno e allucinazione. Sognate, dunque, sognate… Ci chiesero sorridendo di aderire alla nuova Consapevolezza. La maggior parte di noi si lasciò convertire, chiese perdono. Venne quindi riammessa nel consorzio dei Nuovi Cittadini previa pubblica declamazione della formula penitenziale di rito:
2 + 2 = 5.
Il Nuovo Governo si mostrò clemente e lasciò che essi circolassero liberamente sia pure sotto la sorveglianza di telecamere a circuito chiuso.
I pochi che non si piegarono vennero rinchiusi nelle segrete della Prigione. Sono trascorsi ormai molti anni e nessuno si ricorda di noi. Non saremo dunque eroi, non saremo martiri. Del nostro sacrificio nessuno verrà mai a sapere. Ad uno ad uno veniamo fatti sparire per sempre. In silenzio. Il Guardiano mi ha detto che il Nuovo Governo ha deciso il mio turno per l’alba prossima che viene. Guardo fuori dalla finestra e per l’ultima volta vedo il sole rosso che sorge. Sento i passi dei secondini che mi vengono a prendere.
Mia piccola Aurora, bambina che ancora non sei nata e che forse un giorno verrai. Figlia dei miei figli che mi hanno ormai dimenticato. Lascio a te questa lettera nascosta sotto una pietra del pavimento, come un messaggio in una bottiglia. Sperando contro ogni speranza spero che un giorno pervenga nelle tue mani.
Aurora: viene per me la morte a passi certi nel corridoio, gira la sua chiave nella serratura della mia cella. Viene per me la morte a scrivere la parola fine e non ci sarà ancora un domani. Eppure sono grato a questi uomini che mi trascinano via nelle loro divise grigie. Voi fratelli sconosciuti , volti anonimi che non conosco e che già caricate il fucile. Voi mi aiutate a ristabilire il confine: tra ciò che c’è e ciò che fra poco non sarà più. Nel sancirne la fine date realtà definitiva alla mia esistenza. Ancora per poco ma io oggi sono, sono, sono! Questa è la mia verità e non potete togliermela.
E tu piccola Aurora, desiderio di un nuovo sole che sorge, di una vita che continua, sii felice ed ogni volta che puoi sii innamorata. Non sprecare la tua vita in piccole bugie, giochetti, tradimenti. Alla fin fine tradiresti, perderesti solo te stessa. Quando puoi vai sulla riva del mare e guarda il cielo quando c’è il sole che sorge. C’è un momento preciso quando la notte si trasforma in giorno, è un momento perfetto, non ha inganno, porta il tuo nome: Aurora.
Bibliografia
Graham Green, L’ultima parola e altri racconti, Oscar Mondadori
Aldous Huxley, Il Nuovo Mondo, Oscar Mondadori
George Orwell, 1948, Oscar Mondadori
Ray Bradbury, Fahrenheit 451, Oscar Mondadori
Anna Arendt, La menzogna in politica, ed. Marietti
Filmografia
Brasil, diretto da Terry Gilliam, UK, 1985, con Robert De Niro e Jonathan Pryce
I figli degli uomini, diretto da Alfonso Cuaron, UK, 2006, con Clive Owen, Julianne Moore, Michael Caine.
Il prigioniero prega assorto nella piccola cella del carcere di Flossenbürg. E’ già notte fonda ma la Corte Marziale poco distante lavora alacremente. Bisogna fare presto. L’elenco dei cospiratori che non devono assolutamente sopravvivere è quasi pronto. Tra loro Wilhelm Canaris il brillante Ammiraglio della Abwehr che ha osato opporsi a Hitler meditandone più volte l’attentato. Assieme a lui i suoi complici: Oster, Strunk, Gehre, von Dohnanyi ed infine quello strano ma straordinariamente simpatico pastore luterano: Dietrich Bonhoeffer. Fuori tutto ormai crolla a pezzi: è l’8 aprile del 1945. Le truppe sovietiche si avvicinano a grandi passi a Berlino cercando di giungervi prima di quelle angloamericane. La sorte del regime nazista è ormai segnata: è questione di poche settimane, forse addirittura giorni. Molti pensano solo a mettersi in salvo. Altri no: prima bisogna eliminare quegli uomini. Forse non è odio ma solo burocrazia. Più tardi qualcuno scriverà che la malvagità può essere banale.
Il prigioniero accarezza tra le mani i libri che tanto ha amato: Goethe, la Bibbia, Plutarco. Sa bene che ormai è tutto finito, che le speranze degli ultimi giorni non sono state che un ultimo, tragico disinganno, che domani mattina lo verranno a prendere.
Si sorprende, quasi, di non provare disperazione. Anzi un sorriso benevolo si fissa impercettibilmente sul lato destro del viso. Il pensiero corre ai giorni felici dei viaggi in Italia, lo stupore e l’ammirazione per l’architettura di Roma e Venezia, e poi le conferenze a Londra, Oxford, New York, Stoccolma. Erano i giorni del successo, i giorni dell’amicizia fedele, della libera docenza in teologia, della pubblicazione dei suoi libri: “Sequela”, “La vita in comune”, “Creazione e Caduta – l’ora della tentazione”. Già l’ora della tentazione: anche Cristo ha vissuto qualcosa di simile: un processo sommario, una condanna già scritta, una notte di veglia in attesa dell’esecuzione. La tentazione è quella di odiare questa gente, questi volti anonimi di individui che tra la resistenza e l’arrendersi hanno scelto la resa. Sì, la responsabilità del disastro grava su costoro forse ancor di più che su coloro che lo hanno causato. La responsabilità di chi ha taciuto, di chi ha voltato lo sguardo, chiuso il cuore, serrate le mani, di chi ha lasciato, senza opporsi, che gli altri facessero. La tentazione è di detestarli per la loro debolezza e mediocrità. Ma anche cedere all’odio in questa ultima notte sarebbe una resa. Tornano alla mente le parole di una poesia scritta tanto tempo prima: “Tu che punisci i peccati e perdoni volentieri, Dio questo popolo io l’ho amato. Aver portato la sua vergogna e i suoi vizi, e aver scorto la sua salvezza: questo mi basta”. Sì, questo forse basta. Forse un giorno questo Paese: la Germania, questo continente: l’Europa intera, ecco forse sì, un giorno risorgeranno dal buio sozzo nel quale sono precipitati. Gli uomini che sopravvivranno cercheranno i nomi di chi ha saputo resistere. Più importanti dell’aria, più importanti della luce, più importanti della speranza. I nomi di coloro che non si piegarono, maestri e testimoni di coraggio. Un popolo, una civiltà non può tornare a vivere se oggi non c’è chi sia capace di morire per la libertà e la giustizia. E più di ogni altra cosa sappia morire senza odiare. “Dio, questo popolo io l’ho amato, io l’ho amato, io l’ho amato” ripete Dietrich dentro di sé come in una ninna nanna.
Improvvisamente una domanda che ghiaccia il cuore: “Ma tu Dio, Dio degli eserciti, Dio della vittoria, della giustizia, degli umili e degli oppressi: tu Dio, in quest’ora tragica della mia vita, rispondimi: dove sei? Dove ti sei nascosto? Perché non vieni a salvarci? Scendi dalle tue nubi, stendi il tuo braccio potente, disperdi questi malvagi, salvaci dalla corrente! Dio rispondimi: dove sei?”. Dietrich rimane a lungo in silenzio. Solo l’eco di alcuni passi di altri prigionieri inquieti. Una pallida luce che non conosce ancora i colori della primavera comincia ad annunciare l’alba. La Corte Marziale ha senz’altro già completato la sentenza. Lucidi stivali di pelle si fanno strada tra il labirinto dei corridoi di Flossenbürg diretti a quella cella. Fra poco una mano aprirà quella porta e leggerà quell’ordinanza di morte. E poi un pensiero, una luce: “Dio mio perdonami, come ho potuto anche solo per un istante dimenticare e dubitare. Quando l’uomo soffre ed è messo sulla croce io so dove trovarti. Sei anche tu sulla croce, debole ed esausto a condividere questa nostra sofferenza”.
Due giri di chiave nella porta che viene spalancata con violenza; un gendarme grida rauco e furibondo: “Prigioniero Bonhoeffer, prepararsi e venir via!”. Dietrich sorride e gli risponde: “E’ la fine. Per me l’inizio della vita”.
Nota bio-bibliografica
D. Bonhoeffer venne impiccato, nudo, il 9 aprile del 1945. Non aveva quarant’anni. Il 23 aprile le truppe americane liberarono Flossenbürg. Era stato arrestato due anni prima per la sua partecipazione attiva alla resistenza tedesca. Era appena rientrato volontariamente dagli Stati Uniti dove, se solo avesse voluto, avrebbe potuto salvarsi. Egli riteneva che la resistenza non dovesse essere solo morale ma realizzarsi nell’azione. Pastore e teologo ha profondamente rinnovato con i suoi scritti la riflessione sul ruolo del cristiano in un tempo secolarizzato, auspicando che l’impegno etico diventasse politico. La debolezza di Dio, le fedeltà alla terra e la responsabilità dell’uomo sono i temi dominanti di “Resistenza e Resa” (ed. Paoline) raccolta di lettere agli amici scritte dal carcere.
Secondo la definizione del Dizionario della Lingua Italiana Devoto Oli il significato della parola “indignazione” é quello di “risolutaribellione a quanto offende la dignità propria o degli altri”. Approvo questa definizione e anzi sento nei suoi confronti una spiccata simpatia. I motivi sono molteplici. Innanzitutto mi piace questa idea della ribellione che immagino come una forza profonda, nascosta, quasi dormiente nelle viscere dell’anima, che forse neppure sappiamo di possedere ma che un giorno, quando viene provocata da qualcosa che non è più sopportabile, è capace di risvegliarsi all’improvviso, di alzarsi e di mandare tutto all’aria.
E’ vero, purtroppo, che la nostra organizzazione sociale è in larga misura strutturata per favorire il conformismo, il seguire la corrente, persino la rassegnazione. Mi risuonano nelle orecchie parole già sentite: “Abbiamo le mani legate!”, “Tanto non cambia nulla!”, “Che ci vuoi fare?!”, “Vivi e lascia vivere”. Parole, frasi, pensieri che cospirano per farci accettare in modo fatalista quel che pare ineluttabile. Una scrollata di testa, un’alzata di spalle e poi via, ciascuno per la sua strada a pensare ai fatti propri e a leccarsi le ferite.
Invece no, proprio quando tutto sembra perduto, abbandonato, rinunciato ecco che avvertiamo sorgere un moto di ribellione, questa scossa tellurica che trova origine nel profondo. E’ una forza irrazionale e al tempo stesso terribilmente logica, un magma di sentimenti di giustizia, di verità, di ritrovato coraggio e libertà che ci fa alzare la testa, stringere i pugni, restare in piedi mentre tutti si siedono. Una voce che si fa forte nella gola. Sentiamo noi stessi pronunciare parole che mai avremmo immaginato di poter dire. Ecco l’uomo in rivolta, la ribellione che avanza, sì la ribellione, un sentimento per gente semplice, per nulla abituata ai raffinati cerimoniali delle stanze del potere. Ecco la ribellione, un moto viscerale magari anche un po’ plebeo ma che svela in noi una voglia di bellezza, di purezza, di nobiltà morale che non può essere soffocata.
Qui sta un secondo motivo della mia simpatia verso la definizione del Devoto Oli: ribellione verso quanto “offende la dignità”. Mi piace pensare che esiste in ciascuno di noi una dimensione inalienabile e imprescindibile di dignità. Per quanto oppresso, vilipeso, insultato, sbeffeggiato, ridicolizzato l’uomo mantiene nel suo fondo una dignità che nessuno potrà mai strappargli. Nello scrivere queste parole mi passa davanti agli occhi l’immagine del celebre dipinto di Antonello da Messina che ritrae un uomo bastonato, flagellato, deriso, appena condannato a morte. Eppure un uomo. Anzi: l’Uomo! Ecce Homo, ecco l’uomo, uno sguardo pieno di dignità, intenso, profondo, buono. In quel volto tutti gli uomini possono riconoscersi, tutti gli uomini che hanno sofferto, tutti coloro che hanno patito, quelli che per qualche motivo sono stati sconfitti: in quella dignità che non accetta di essere cancellata dalle botte una grande speranza – anzi una promessa – di riscatto. La dignità dell’uomo è una dimensione che ci appartiene fino al giorno in cui moriremo anche se a volte sembriamo piuttosto degli animali, dei rettili viscidi che strisciano sulla pancia, esseri mediocri e infingardi, mascalzoni di lungo corso… E invece no, per ciascuno c’è una dignità nascosta da riconquistare, un no da pronunciare a voce alta, una ribellione in agguato contro le nostre stesse debolezze, una promessa di nobiltà che possiamo conseguire.
Infine un terzo motivo di simpatia per quanto scrivono Giacomo Devoto e Giancarlo Oli: “la dignità propria e degli altri”. Qui sta una grandezza ancora più alta: la ribellione non solo per quando veniamo toccati nel nostro interesse ma quando viene fatto un affronto alla dignità degli altri. C’è in questa idea il senso di una solidarietà più vasta tra gli esseri umani, l’idea di una comunità alla quale tutti apparteniamo, che non è fatta solo di aspetti linguistici, di cittadinanza politica, di rapporti economici o commerciali. No qui c’è una comunanza fondata sulla medesima dignità, sul fatto che condividiamo tutti, nessuno escluso, questa similitudine di essere uomini: i ricchi e i pezzenti, gli esploratori e i burocrati, i nomadi e i periti tecnici, i padani e i rom….tutti simili, tutti portatori nel fondo di queste gemme che formano un’unica corona. Chi offende la dignità di un altro offende anche la mia così come chi strappa una pietra dalla corona ne ruba un pezzetto anche alla mia. Ecco, dunque, che di fronte ad un’offesa che pure non sembra riguardarmi, sento l’indignazione risvegliare in me quell’esercito di terracotta che pareva sepolto per sempre e che riprende risoluto una marcia che mi porterà ad una battaglia cruciale.
Si può davvero provare questa indignazione? Si deve!
Possiamo restare indifferenti di fronte alle torture nel carcere di Abu Ghraib? Alla prigionia senza leggi di Guantanamo? Alle impiccagioni di giovani omosessuali nelle piazze di Teheran? Alla pulizia etnica di Srebrenica? Certo che no. Qui la ribellione è necessaria come cercare l’ossigeno quando si ha la testa sott’acqua. Ma ci sono altre situazioni più subdole dove la nostra coscienza è più facilmente anestetizzata. Quando assistiamo a certi compromessi, piccole corruzioni, aggiustamenti furbi. Quando accettiamo la logica di chi sostiene che non ci sono differenze, che tutte le politiche sono uguali, che la giustizia non esiste e la verità, figuriamoci….! Frasi come tarli, che corrodono e corrompono, poco a poco, giorno dopo giorno. Abolire la verità: un modo come un altro per insinuare che non esiste neppure la menzogna e dunque che ogni offesa, ogni ingiuria, ogni imbroglio sono leciti.
Sto dalla parte di quelli che ritengono che a questo mondo siamo tutti eguali (nei diritti, nella dignità, nei doveri) ma che al tempo stesso siamo tutti diversi e che queste diversità devono essere riconosciute e rispettate. Non mi piacciono, ad esempio, quelli che dicono che gli scout sono come tutti gli altri (evviva! Meno male…..). Ho conosciuto degli scout come Vittorio Ghetti, Arrigo Luppi, Carlo Verga che hanno rischiato la loro vita per mantenere fede all’impegno della loro Promessa quando sarebbe stato preferibile stare a casa e andare a marciare con gli altri Balilla. Degli scout come Don Peppino Diana che si sono fatti ammazzare piuttosto che accettare le intimidazioni della camorra. Degli scout che con gran semplicità e senza clamore tornano a casa la sera e invece che guardare il televisore si mettono a preparare il grande gioco di domenica…
Non mi piace che si dica che sono uguali a tutti gli altri. Anzi, ad essere sincero questo mi indigna. E’ come negare la loro esistenza, disconoscere un impegno, un sacrificio, un sogno.
Non mi piacciono quelli che affermano che tutti gli insegnanti sono uguali. Ci sono insegnanti che amano i loro ragazzi come se fossero loro figli. Per loro fanno il tifo, anche quando fioccano i quattro perchè sanno che c’è differenza tra amore, complicità e compiacenza. Negare questa dedizione, quest’amore mi indigna.
Non mi piace che si dica che tutti i politici sono uguali. Ci sono uomini politici che hanno il coraggio di dire la verità ad un paese che vorrebbe vivere solo di reality show e di veline e che pensano a costruire un futuro anche per chi desidera non essere disturbato dalle sue visioni allucinate e deformate di un presente catodico e surreale.
Dire che sono uguali a quelli che su quel tubo catodico lucrano e fanno affari mi indigna.
Allo stesso modo non sono tutti uguali i medici, i panettieri, i lustrascarpe…. Nelle persone e nelle situazioni ci sono delle differenze e ciascuno di noi può fare quella differenza.
Il nostro è un paese che ha bisogno di ritrovare della dignità. Tutti noi, singoli cittadini di questo mondo, dobbiamo ritrovare il gusto e la voglia di dignità. Per noi stessi e per chi ci ritroviamo vicino. Magari un semplice lavavetri, un operaio rumeno, il direttore di una banca, una prostituta nigeriana, l’impiegato delle poste… Si dignità, questa parola così fuori moda e persino derisa. Forse non a caso perché il modo più semplice per tirare la riga dritta e fare camminare tutti alla stessa maniera sta proprio nel dire che la dignità non è una cosa buona anzi è ridicola e dunque fatevi avanti signore e signori, vediamo chi accetta la prossima umiliazione….Invece la dignità è l’amore per le cose ben fatte, l’amore per la bellezza, l’amore per le cose difficili, per quelle nascoste, per quell’impero dei sentimenti che portiamo timidi e giovani nel cuore. L’indignazione è la ribellione verso ciò che nega la grandezza di quell’impero, verso il ghigno beffardo di chi prova soddisfazione a vedermi caduto, verso il compiacimento dell’altrui sconfitta.
Amare gli uomini significa onorare la loro dignità. A noi giovani ribelli e custodi di quell’impero l’avventura di vivere, lottare e costruire un mondo che non abbia più bisogno dell’indignazione per stare in piedi.
Roberto Cociancich
Io sono Carl Johnson (CJ per gli amici) di ritorno a Los Angeles dopo un esilio volontario di cinque anni a Liberty City. Purtroppo la mia fuga, allora, fu interpretata come un atto di codardia. Nessuno più mi rispetta nel mondo della mala. Cinque lunghi, lunghi anni e ora devo tornare a farmi un nome. Per girare la città mi serve un mezzo. Fermo una macchina: c’è uno sopra. Faccio una X con il joystick e lo ammazzo. Adesso va meglio. Comincio ad essere più considerato. Mi fermo davanti alla palestra, faccio un po’ di esercizi e qualche tatuaggio per migliorare il mio aspetto e il mio ego. Faccio fuori un po’ di nemici, mi compro una camicia a fiori. Controllo il mio giro di prostitute per essere certo che non tentino di fregarmi. Schiaccio il tasto R1, sparo in testa a un poliziotto e gli spiaccico il cervello, ritiro mazzette, prendo a botte un commerciante. E’ così che bisogna comportarsi se vuoi avere il controllo del quartiere e diventare vincente. Rubo un’altra auto, investo un po’ di passanti. Stirare le vecchiette non fa guadagnare punti ma non è del tutto ininfluente per completare il gioco….
Stiamo parlando, ovviamente, di GTA (Grand Theft Auto) il gioco della playstation più vietato (e dunque più venduto) ai ragazzi dai 12 ai 16 anni. Quest’ appassionante iniziazione alla vita criminale richiede un minimo di cento ore di gioco ma di fatto ci si gioca molto di più. Non è un’osservazione moralista affermare che GTA è la cosa peggiore che ti possa capitare fra le mani se hai 12 anni o giù di lì. (Siete sicuri di non essere stati proprio voi a regalarla distrattamente a vostro figlio lo scorso Natale?).
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Io sono Holden Caulfield e immagino che vogliate sapere della mia infanzia schifa, cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io e tutte quelle baggianate alla David Copperfield ma a me non me ne va proprio di parlarne. Ad ogni modo è dicembre e tutto quanto, e l’aria è fredda come i capezzoli di una strega, specie sulla cima di quel cretino di un colle. Ad ogni modo mi hanno appena cacciato dall’Istituto Pencey (il vecchio Pencey! pieno di studenti farabutti: una scuola più costa e più farabutti ci sono – senza scherzi). Quel bastardo di Stradlater, il mio compagno di stanza, è un vero mandrillo. Quando sono entrato si stava mettendo la cravatta davanti allo specchio. Passava la sua vita davanti allo specchio, il vecchio Stradlater. E a schiacciarsi i brufoli senza nemmeno un fazzoletto, il vecchio Stradlater. Si lisciava per uscire con Jane Gallagher, quel bastardo. Jane., con cui giocavo a dama, anni fa quando eravamo vicini di casa. Suo padre e sua madre erano divorziati e la madre aveva risposato uno che non faceva altro che sbevazzare e girare nudo per la casa. Anche lei, la vecchia Jane, ha avuto un’infanzia schifa ma a Stradlater non gliene importava un fischio. Ad ogni modo forse è per questo o per quell’aria di uno che ci sa fare con le ragazze che quando più tardi è rientrato l’ho insultato, chiamandolo figlio di puttana e tutto il resto. E il vecchio Stradlater mi ha spaccato il naso, dicendomi che me l’ero voluta. Dopo sono andato allo specchio per vedere la mia faccia da cretino. Mai visto un macello così in tutta la mia vita. Avevo sangue sulla bocca, sul mento, perfino sul pigiama e sulla vestaglia. Un po’ mi spaventava e un po’ mi affascinava. Mi dava una certa aria da duro. In vita avevo fatto a cazzotti un paio di volte e le avevo buscate tutte e due le volte. Non sono tanto duro. Sono pacifista se proprio volete saperlo. Mi chiamo Holden Caulfield (il “Giovane Holden” ha scritto J.D.Salinger) e non mi va di raccontarvi la mia vita schifa ma da quando il vecchio Salinger ha scritto di me sono diventato l’eroe il modello di comportamento di un’intera generazione. Il vecchio Salinger!
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Io sono Gregor Samsa, dipendente di una ditta anonima di Praga, viaggiatore di commercio, tutto il giorno ad incontrar gente, con la preoccupazione delle coincidenze dei treni, il mangiare irregolare e cattivo e con gli uomini rapporti che non durano, ma cambiano sempre e non diventano mai cordiali. Una vita difficile o forse semplicemente una vita desolata. Il direttore dell’ufficio mi parla sempre guardandomi dall’alto al basso, se potessi trovare il coraggio troverei il modo di vendicarmi. Chissà cosa penserà di me oggi, questa mattina non mi sono ancora alzato e con ogni probabilità avrà già notato il mio ritardo. Mi aspetto una sfuriata. Sicuramente il fattorino, quella sua creatura senza vertebre né intelligenza, lo avrà informato. Vorrei scendere dal letto ma non ci riesco. Mia madre è già venuta più volte a bussare (sei in ritardo!), mia sorella geme accanto alla porta (Gregor apri te ne supplico!), anche mio padre, per una volta, ha lasciato da parte il suo giornale per battere fiaccamente il pugno alla porta (Gregor, Gregor!). E’ giunto da poco persino il procuratore della ditta. Il procuratore in persona. Signor Gregor, il suo ritardo esige delle spiegazioni. Loro ancora non sanno. Non sanno ciò che io già so da stamane quando ho aperto gli occhi. Non sanno ciò che io ho scoperto – senza sorpresa – forse già da tantissimo tempo. Si è compiuta (completata?) una metamorfosi e il mio corpo si è trasformato in quello di un immenso insetto (ho sempre saputo di essere un insetto). Alzando un tantino la testa, sopra la schiena corazzata e dura, vedo la pancia marrone, convessa e divisa da ricurve nervature. Molte zampette, pietosamente sottili in rapporto alla solita mole, tremolano inermi davanti ai mie occhi.
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Sono il soldato Lynndie England in forza alla 372a compagnia della polizia militare (MP). Vengo da Fort Bragg, Fayettville nel nostro meraviglioso Stato del Nord Carolina. Ho 21 anni e una famiglia meravigliosa che adoro e che mi comprende. Ho tanti amici con i quali mi diverto. Spesso, quando non guardiamo la TV o giochiamo alla playstation, andiamo al Drive In o da Burgher King. Poi facciamo anche altre cose (che però non mi sento di raccontare). Uno davvero forte è Charles Graner, ha delle spalle come una montagna e ride sempre. Sarà presto il padre del mio bambino. L’anno scorso siamo stati insieme in una missione speciale dell’esercito in un paese arretrato (non mi ricordo bene come si chiama) dall’altra parte dell’Oceano. Siamo andati lì per portare la libertà e sconfiggere i terroristi. Così ci ha spiegato il nostro comandante in capo. Ragazzi, un posto terribile, pieno di polvere e torrido. Però ci siamo divertiti un sacco ugualmente. Eravamo di servizio ad Abu Ghraib, mi pare si chiami così quel posto, una specie di prigione pigiata di nemici della libertà. E’ stato forte, meglio che con la Playstation. Charles ha organizzato un sacco di giochini divertenti e quelli se la facevano addosso dalla paura. Abbiamo usato anche i fili elettrici, i cani, le manette, i guinzagli. Abbiamo fatto un sacco di foto così da farle vedere ai nostri amici di Fayettville. Uno spasso. Poi è successo un gran casino perché qualcuno ha tirato fuori le foto e le mandate in giro su internet. Peccato, abbiamo dovuto smettere, adesso sono tornata nel Nord Carolina e mi toccherà arrangiarmi da sola con la Playstation.
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Siamo gli uomini vuoti, gli uomini dalla testa impagliata, abitanti di una terra deserta, di una landa desolata. I figli di una libertà che non abbiamo dovuto conquistare. Siamo gli uomini lucertola, gli uomini insetto in attesa di essere traghettati nel girone dove non c’è alcun dolore. Nel ghiaccio dell’anima non proviamo sentimenti. Viviamo nel riflesso di immagini colorate, schermi trapuntati da labbra rigonfie, tette siliconate, sederi scosciati avvolti in minigonne ascellari, nella ricerca di quiz che dia risposte inutili e rassicuranti, una realtà solo virtuale che tenga assopita la nostra coscienza e ci consenta il tempo per facili trasgressioni che scaccino la noia. Si, conosciamo la storia di Lucignolo e dell’orrore che provò nel sentire la sua voce ragliare e vedere le orecchie lunghe sotto il cappello. Ma esiste per ogni angoscia una pastiglia, per ogni sconfitta un alibi, per ogni rinuncia una birra.
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(Intanto nella notte altri uomini impastano il pane, compongono le notizie che correranno di bocca in bocca, assistono al parto di teneri germogli di vita, vegliano sugli altiforni che non verranno mai spenti, preparano quel nuovo che non ci verrà mai negato, sentinelle di un’aurora che ci viene donata anche se non meritata).
Bibliografia
Roberto Cotroneo “Clicca” e spara: lezioni di crimine alla Playstation – l’Unità 13.11.2004
J.D. Salinger Il Giovane Holden – ed. Einaudi
Franz Kafka Metamorfosi – ed. Longanesi
Ulrick Beck I rischi della libertà – ed. Il Mulino
Fernando Savater Il coraggio di scegliere – Riflessioni sulla libertà – ed. Laterza
T.S. Eliot La Terra Desolata e Gli Uomini Vuoti – ed. Bompiani
Nel celebre film “L’attimo fuggente” il dramma è imperniato sulla tragica figura di Neil Perry, un giovane studente dell’Accademia Welton , conservatrice scuola superiore del New England il cui motto è “Tradizione, Onore, Disciplina ed Eccellenza”. La vocazione artistica di Neil, la sua sensibilità poetica (torna a far vivere la “Società dei Poeti Estinti”) si risveglia all’arrivo del professor Keating, magistralmente interpretato da Robin Williams, propugnatore di una filosofia liberatrice ed ispiratore di una vita all’insegna dell’audacia e della creatività. Sull’altro versante sta la figura autoritaria del padre di Neil, che disprezza i suoi slanci artistici (“non hanno futuro“) e lo costringe ad iscriversi all’Accademia Militare senza chiedersi che cosa il figlio voglia realmente. Il conflitto tra le due visioni del mondo e le due prassi educative schiacciano Neil che, incapace di ribellarsi al padre e al tempo stesso di seguirne la volontà, si suicida con la sua pistola dopo aver interpretato Puck nel Sogno di una notte di mezza estate.
La morte di Neil sembra essere l’unica forma possibile di protesta verso il mondo degli adulti che, sia esso fatto di luci e libertà o, al contrario, di dogmatismo ottuso e autoritario, appare in ogni caso a Neil come inaccessibile e impossibile da vivere. Il conflitto è insostenibile, crescere insopportabile, il futuro inaccettabile, il presente invivibile.
La cronaca odierna pone sotto i nostri occhi situazioni assai diverse.
È sempre più ricorrente il grido di allarme di insegnanti professori per l’elevato grado di bullismo all’interno della scuola. Leggiamo di scuole allagate, di professori intimiditi, di registri bruciati, di aggressioni ai più deboli, persino se disabili.
Tutte imprese destinate ad essere riprese con il videotelefonino e poi diffuse via Internet su YouTube per il piacere visivo di molti altri pavidi ribelli. Altri, più intraprendenti, devastano gli stadi, ammazzano a sprangate i poliziotti, si massacrano a scazzottate fuori dai bar. All’indomani di una rissa davanti al Luminol, uno dei locali più in voga a Milano, un maresciallo dei carabinieri ha commentato: “Non mi stupisco, ormai è la consuetudine. È la nuova moda degli adolescenti di Milano: andare in giro a fare a botte“. In quell’occasione una quarantina di ragazzi tra i 16 e i 18 anni, si sono picchiati per mezz’ora sotto gli occhi inorriditi dei passanti. Non stiamo parlando di ragazzi delle periferie decrepite del quartiere Zen a Palermo o di Scampia a Napoli ma di figli benestanti di manager, professionisti, imprenditori. “Sono bambini viziati -commenta un buttafuori – bevono, si impasticcano per sentirsi più grandi e poi vanno fuori di testa“.
Mancano nella maggior parte dei casi i professori Keating, mancano le loro parole ispiratrici, gli alti valori di riferimento, il clima morale di fiducia e di incoraggiamento verso i giovani e gli adolescenti. Quelle parole, quei valori, quel clima sembrano essere andati smarriti e svaniti gli uomini capaci di proporli e di incarnarli.
Ma al tempo stesso mancano anche i padri autoritari, le voci impositive e assertive. Mancano gli obblighi e la morale dei doveri. Paradossale è che in questo vuoto di figure di riferimento la rabbia, la violenza non sembrano diminuire ma anzi diffondersi e trovare tra gli adolescenti ogni giorno nuovi adepti e nuove forme di espressione.
Nuove figure di educatori si materializzano nella nebbia morale di questi tempi complessi: figure anonime, indulgenti, rinunciatarie, guide senza bussola, accompagnatori zelanti ma scettici.
Parlando con i genitori dei compagni di classe dei miei figli, persone deliziose e ottimi amici — si ha talvolta l’impressione di trovarsi di fronte a persone incapaci di dire o di resistere alle richieste (o ricatti) dei loro pargoli. “Cosa desideri caro? : un telefonino, un videofonino, la PlayStation? Preferisci in lettore MP3, un videogioco…?”
Di fronte a nuove pretese appare impossibile rifiutarsi e ancor di più prospettare un sistema di valori e di scelte forti in alternativa ai modelli iperconsumistici. Dunque non resta che anticipare i desideri cercando di sopravvivere, tranquillizzare i sensi di colpa o quantomeno di lenire il mal di testa.
Il problema non riguarda solo gli adolescenti ma mette le sue radici nel tempo dell’infanzia (sempre che la parola infanzia abbia ancora un significato per quei bambini abbandonati davanti alla TV dove scorrono storie e immagini di almeno 250 omicidi efferati ogni giorno).
Ho passato la serata di ieri a giocare con mio figlio a World of Warcraft, apparentemente un gioco per pc come tanti altri, in realtà qualcosa di profondamente diverso e inquietante. L’ambientazione grafica è straordinariamente curata, ci si trova in un mondo fantastico, simile alla giungla di Mowgli, abitato da personaggi e animali dalle sembianze mitologiche. Lo scopo del gioco è innanzitutto quello di sopravvivere in un ambiente ostile: per riuscire a farlo è necessario catturare e uccidere altri personaggi (cominciando dai lupi che sono quelli più facili) e quindi depredarli del tesoro che indossano. Questo fatto ti dà maggiore forza e quindi ti consente di crescere e aggredire altri personaggi. Fino a qui tutto normale (diciamo così…), abbiamo già visto in altri videogiochi come Grand Theft Auto che lo scopo del giocatore è quello di investire pedoni, rapinare vecchiette, sfruttare la prostituzione, diventare il ras del quartiere….
La peculiarità di World of Warcraft è che il giocatore non gioca da solo contro il computer ma in realtà accede ad una piattaforma on-line sulla quale si muovono – effettivamente – altri giocatori collegati con il loro computer da qualche altra parte del mondo. Ieri sera eravamo collegati in circa sette milioni e quando prendevo o davo una botta in testa a qualche strana figura simile ad un orco o ad un alieno in realtà stavo interagendo con qualcuno che esiste per davvero in qualche parte del mondo. Una specie di zombie armato come Mazinga mi si è avvicinato (io sono un nanerottolo vestito di rosso) e mi ha chiesto con uno stentato inglese (era un giocatore finlandese) se volevo entrare nella sua orda per attaccare un branco di uomini-iena poco distante. Cosa che ho che ho fatto con grande entusiasmo per poi scoprire che i nostri nemici erano un gruppo di giocatori iberici e sudamericani piuttosto tosti ed esperti con i quali ci siamo poi scambiati un paio di insulti prima di filarcela a gambe nel folto della foresta. Tutti insieme a darci morsi e botte in questo mondo virtuale e parallelo, irreale ma seducente. E’ la giungla post tecnologica, dove ci trasformiamo in esseri mutanti dove non vi sono altri valori se non quelli primordiali (uccidere e depredare per sopravvivere). Il gioco è vietato ai minori di 12 anni cosa che lo ha reso particolarmente attraente proprio agli infradodicenni. Quando l’ho fatto notare a mio figlio (10 anni) ha commentato sorridendo ”ma papà tutti i giochi divertenti che abbiamo in casa sono vietati a chi non ha 12 anni…”.
Lo confesso: non mi inquieta tanto l’immoralità, la perversione dei valori, il capovolgimento dei principi etici sui quali pensiamo sia fondata la nostra civiltà (salvo essere sistematicamente smentiti dalla cronaca). No, ciò che mi inquieta è questa fuga dalla realtà, questa rincorsa a perdifiato verso il virtuale, il fittizio, il mondo parallelo e finto nel quale ci muoviamo come esseri mutanti, con nomi inventati, identità fittizie, personalità deviate. in tempo mondo che prima di ogni altra cosa premia l’apparenza, quindi l’avere e da ultimo l’essere.
Mi inquieta questa giungla inventata da adulti nei quali Mowgli e i nostri bambini molto difficilmente potranno evitare di perdersi. In altre parole un labirinto visuale, mentale e ideologico nei confronti del quale altri adulti meno accorti e smaliziati accompagnano compiacenti i propri figli pensando di fare la cosa giusta. Non è un caso che Bill Gates (che certo ingenuo non è) abbia vietato alla propria figlia di stare più di un’ora al giorno davanti al computer e che Berlusconi abbia mandato i figli in una scuola che pone tra le proprie regole il bando della televisione.
In molti casi i comportamenti indulgenti degli adulti sembrano essere dovuti alle loro stesse ansie (“il telefonino e l’unico modo per controllare dove si trova mio figlio“) sinonimo di poca fiducia (nei figli ma anche in se stessi) . In altri casi tradiscono una insicurezza dovuta alla condizione di “quasi adolescenti” dei genitori stessi che nonostante l’età anagrafica sono rimasti ad uno stadio di sviluppo psicologico da minorenne con la conseguente incapacità di allacciare relazioni autenticamente educative con i propri ragazzi. In questi casi assistiamo a scimmiottamenti da “amiconi” più adatti ai pari età che ad educatori. È forse questo anche il caso di molti capi scout che fanno fatica a farsi accettare dai propri ragazzi e cercano attraverso queste scorciatoie una strategia di sopravvivenza?. Osvaldo Poli, psicologo e psicoterapeuta, ha recentemente osservato: ” Stiamo crescendo una generazione di pulcini feroci. Il male in verità non dipende dal dolore, ma dal rifiuto del dolore, dal rifiuto di accettare che la realtà non è in tutto come il desiderio vorrebbe“.
Se questa è una lettura verosimile delle ragioni del disagio attuale degli adolescenti, delle ragioni della noia e del disgusto, scorgiamo in questo una sorprendente analogia, dopo tante differenze, con la vicenda del giovane Neil Perry, il protagonista del film citato all’inizio di questo articolo. È sempre il confronto con la realtà ciò che conta ed è dunque ancora più importante di qualunque tecnica metodo o progetto educativo: la realtà è la grande maestra di vita. Imparare ad accettarla, guardarla, in faccia, accorgersi, misurarsi con essa, assumerne la responsabilità: questa la strada per uscire dalla follia paranoica del nostro mondo virtuale fittizio. Su questa strada ci sarà il tempo e l’occasione per imparare a fare buon uso della propria intelligenza e coscienza e dunque per maturare la capacità di rivendicare vittorie e sconfitte, prendere decisioni e assumere responsabilità (verso se stessi e verso gli altri). Di considerare il proprio destino non come luogo del conflitto insostenibile ma come il tempo dell’imprevisto, della scoperta e della libertà.