Pulcini feroci
Nel celebre film “L’attimo fuggente” il dramma è imperniato sulla tragica figura di Neil Perry, un giovane studente dell’Accademia Welton , conservatrice scuola superiore del New England il cui motto è “Tradizione, Onore, Disciplina ed Eccellenza”. La vocazione artistica di Neil, la sua sensibilità poetica (torna a far vivere la “Società dei Poeti Estinti”) si risveglia all’arrivo del professor Keating, magistralmente interpretato da Robin Williams, propugnatore di una filosofia liberatrice ed ispiratore di una vita all’insegna dell’audacia e della creatività. Sull’altro versante sta la figura autoritaria del padre di Neil, che disprezza i suoi slanci artistici (“non hanno futuro“) e lo costringe ad iscriversi all’Accademia Militare senza chiedersi che cosa il figlio voglia realmente. Il conflitto tra le due visioni del mondo e le due prassi educative schiacciano Neil che, incapace di ribellarsi al padre e al tempo stesso di seguirne la volontà, si suicida con la sua pistola dopo aver interpretato Puck nel Sogno di una notte di mezza estate.
La morte di Neil sembra essere l’unica forma possibile di protesta verso il mondo degli adulti che, sia esso fatto di luci e libertà o, al contrario, di dogmatismo ottuso e autoritario, appare in ogni caso a Neil come inaccessibile e impossibile da vivere. Il conflitto è insostenibile, crescere insopportabile, il futuro inaccettabile, il presente invivibile.
La cronaca odierna pone sotto i nostri occhi situazioni assai diverse.
È sempre più ricorrente il grido di allarme di insegnanti professori per l’elevato grado di bullismo all’interno della scuola. Leggiamo di scuole allagate, di professori intimiditi, di registri bruciati, di aggressioni ai più deboli, persino se disabili.
Tutte imprese destinate ad essere riprese con il videotelefonino e poi diffuse via Internet su YouTube per il piacere visivo di molti altri pavidi ribelli. Altri, più intraprendenti, devastano gli stadi, ammazzano a sprangate i poliziotti, si massacrano a scazzottate fuori dai bar. All’indomani di una rissa davanti al Luminol, uno dei locali più in voga a Milano, un maresciallo dei carabinieri ha commentato: “Non mi stupisco, ormai è la consuetudine. È la nuova moda degli adolescenti di Milano: andare in giro a fare a botte“. In quell’occasione una quarantina di ragazzi tra i 16 e i 18 anni, si sono picchiati per mezz’ora sotto gli occhi inorriditi dei passanti. Non stiamo parlando di ragazzi delle periferie decrepite del quartiere Zen a Palermo o di Scampia a Napoli ma di figli benestanti di manager, professionisti, imprenditori. “Sono bambini viziati -commenta un buttafuori – bevono, si impasticcano per sentirsi più grandi e poi vanno fuori di testa“.
Mancano nella maggior parte dei casi i professori Keating, mancano le loro parole ispiratrici, gli alti valori di riferimento, il clima morale di fiducia e di incoraggiamento verso i giovani e gli adolescenti. Quelle parole, quei valori, quel clima sembrano essere andati smarriti e svaniti gli uomini capaci di proporli e di incarnarli.
Ma al tempo stesso mancano anche i padri autoritari, le voci impositive e assertive. Mancano gli obblighi e la morale dei doveri. Paradossale è che in questo vuoto di figure di riferimento la rabbia, la violenza non sembrano diminuire ma anzi diffondersi e trovare tra gli adolescenti ogni giorno nuovi adepti e nuove forme di espressione.
Nuove figure di educatori si materializzano nella nebbia morale di questi tempi complessi: figure anonime, indulgenti, rinunciatarie, guide senza bussola, accompagnatori zelanti ma scettici.
Parlando con i genitori dei compagni di classe dei miei figli, persone deliziose e ottimi amici — si ha talvolta l’impressione di trovarsi di fronte a persone incapaci di dire o di resistere alle richieste (o ricatti) dei loro pargoli. “Cosa desideri caro? : un telefonino, un videofonino, la PlayStation? Preferisci in lettore MP3, un videogioco…?”
Di fronte a nuove pretese appare impossibile rifiutarsi e ancor di più prospettare un sistema di valori e di scelte forti in alternativa ai modelli iperconsumistici. Dunque non resta che anticipare i desideri cercando di sopravvivere, tranquillizzare i sensi di colpa o quantomeno di lenire il mal di testa.
Il problema non riguarda solo gli adolescenti ma mette le sue radici nel tempo dell’infanzia (sempre che la parola infanzia abbia ancora un significato per quei bambini abbandonati davanti alla TV dove scorrono storie e immagini di almeno 250 omicidi efferati ogni giorno).
Ho passato la serata di ieri a giocare con mio figlio a World of Warcraft, apparentemente un gioco per pc come tanti altri, in realtà qualcosa di profondamente diverso e inquietante. L’ambientazione grafica è straordinariamente curata, ci si trova in un mondo fantastico, simile alla giungla di Mowgli, abitato da personaggi e animali dalle sembianze mitologiche. Lo scopo del gioco è innanzitutto quello di sopravvivere in un ambiente ostile: per riuscire a farlo è necessario catturare e uccidere altri personaggi (cominciando dai lupi che sono quelli più facili) e quindi depredarli del tesoro che indossano. Questo fatto ti dà maggiore forza e quindi ti consente di crescere e aggredire altri personaggi. Fino a qui tutto normale (diciamo così…), abbiamo già visto in altri videogiochi come Grand Theft Auto che lo scopo del giocatore è quello di investire pedoni, rapinare vecchiette, sfruttare la prostituzione, diventare il ras del quartiere….
La peculiarità di World of Warcraft è che il giocatore non gioca da solo contro il computer ma in realtà accede ad una piattaforma on-line sulla quale si muovono – effettivamente – altri giocatori collegati con il loro computer da qualche altra parte del mondo. Ieri sera eravamo collegati in circa sette milioni e quando prendevo o davo una botta in testa a qualche strana figura simile ad un orco o ad un alieno in realtà stavo interagendo con qualcuno che esiste per davvero in qualche parte del mondo. Una specie di zombie armato come Mazinga mi si è avvicinato (io sono un nanerottolo vestito di rosso) e mi ha chiesto con uno stentato inglese (era un giocatore finlandese) se volevo entrare nella sua orda per attaccare un branco di uomini-iena poco distante. Cosa che ho che ho fatto con grande entusiasmo per poi scoprire che i nostri nemici erano un gruppo di giocatori iberici e sudamericani piuttosto tosti ed esperti con i quali ci siamo poi scambiati un paio di insulti prima di filarcela a gambe nel folto della foresta. Tutti insieme a darci morsi e botte in questo mondo virtuale e parallelo, irreale ma seducente. E’ la giungla post tecnologica, dove ci trasformiamo in esseri mutanti dove non vi sono altri valori se non quelli primordiali (uccidere e depredare per sopravvivere). Il gioco è vietato ai minori di 12 anni cosa che lo ha reso particolarmente attraente proprio agli infradodicenni. Quando l’ho fatto notare a mio figlio (10 anni) ha commentato sorridendo ”ma papà tutti i giochi divertenti che abbiamo in casa sono vietati a chi non ha 12 anni…”.
Lo confesso: non mi inquieta tanto l’immoralità, la perversione dei valori, il capovolgimento dei principi etici sui quali pensiamo sia fondata la nostra civiltà (salvo essere sistematicamente smentiti dalla cronaca). No, ciò che mi inquieta è questa fuga dalla realtà, questa rincorsa a perdifiato verso il virtuale, il fittizio, il mondo parallelo e finto nel quale ci muoviamo come esseri mutanti, con nomi inventati, identità fittizie, personalità deviate. in tempo mondo che prima di ogni altra cosa premia l’apparenza, quindi l’avere e da ultimo l’essere.
Mi inquieta questa giungla inventata da adulti nei quali Mowgli e i nostri bambini molto difficilmente potranno evitare di perdersi. In altre parole un labirinto visuale, mentale e ideologico nei confronti del quale altri adulti meno accorti e smaliziati accompagnano compiacenti i propri figli pensando di fare la cosa giusta. Non è un caso che Bill Gates (che certo ingenuo non è) abbia vietato alla propria figlia di stare più di un’ora al giorno davanti al computer e che Berlusconi abbia mandato i figli in una scuola che pone tra le proprie regole il bando della televisione.
In molti casi i comportamenti indulgenti degli adulti sembrano essere dovuti alle loro stesse ansie (“il telefonino e l’unico modo per controllare dove si trova mio figlio“) sinonimo di poca fiducia (nei figli ma anche in se stessi) . In altri casi tradiscono una insicurezza dovuta alla condizione di “quasi adolescenti” dei genitori stessi che nonostante l’età anagrafica sono rimasti ad uno stadio di sviluppo psicologico da minorenne con la conseguente incapacità di allacciare relazioni autenticamente educative con i propri ragazzi. In questi casi assistiamo a scimmiottamenti da “amiconi” più adatti ai pari età che ad educatori. È forse questo anche il caso di molti capi scout che fanno fatica a farsi accettare dai propri ragazzi e cercano attraverso queste scorciatoie una strategia di sopravvivenza?. Osvaldo Poli, psicologo e psicoterapeuta, ha recentemente osservato: ” Stiamo crescendo una generazione di pulcini feroci. Il male in verità non dipende dal dolore, ma dal rifiuto del dolore, dal rifiuto di accettare che la realtà non è in tutto come il desiderio vorrebbe“.
Se questa è una lettura verosimile delle ragioni del disagio attuale degli adolescenti, delle ragioni della noia e del disgusto, scorgiamo in questo una sorprendente analogia, dopo tante differenze, con la vicenda del giovane Neil Perry, il protagonista del film citato all’inizio di questo articolo. È sempre il confronto con la realtà ciò che conta ed è dunque ancora più importante di qualunque tecnica metodo o progetto educativo: la realtà è la grande maestra di vita. Imparare ad accettarla, guardarla, in faccia, accorgersi, misurarsi con essa, assumerne la responsabilità: questa la strada per uscire dalla follia paranoica del nostro mondo virtuale fittizio. Su questa strada ci sarà il tempo e l’occasione per imparare a fare buon uso della propria intelligenza e coscienza e dunque per maturare la capacità di rivendicare vittorie e sconfitte, prendere decisioni e assumere responsabilità (verso se stessi e verso gli altri). Di considerare il proprio destino non come luogo del conflitto insostenibile ma come il tempo dell’imprevisto, della scoperta e della libertà.