Storia del cammino, dalla notte verso il giorno
Pietre
Il mio nome è Quinto Giulio, per nascita cittadino romano, centurione della “Legio X Fretensis”. Eravamo dislocati a Gerusalemme con il compito di prevenire gli scontri tra le diverse fazioni locali. Quante erano? Chi può dirlo: zeloti, sadducei, esseni, farisei …..La città nascondeva molteplici segreti: fuori dalle rotte commerciali eppure così piena di vita; priva di valore strategico eppure così contesa…. Quando ero libero dal turno di guardia amavo andare a passeggiare dalle parti del Tempio: qui si riunivano i sacerdoti del Sinedrio, politicanti locali più o meno corrotti che non osavano contrastare noi Romani. Certo ci odiavano… Ma rispettavano l’autorità di Cesare e pagavano i tributi. In cambio noi permettevamo loro di fare quasi tutto quel che volevano. Il tepore della primavera scaldava le colline ed io mi inebriavo del profumo degli ulivi, del luccicare delle mie armi, dei sorrisi delle ragazze. Ero felice ma non lo sapevo.
Ricordo bene quella mattina. L’aria era pesante, il sole grigio. Gerusalemme appariva lenta, sospesa, irreale. Pochi i mercanti per le strade, perlopiù stranieri. Sentii il rumore di finestre che si chiudevano e di porte che venivano sprangate. Qualcosa stava per succedere. Udii un fischio. Vidi giovani donne irrigidirsi nei mantelli. Improvvisamente: grida e abbaiare furioso di cani. Pieni di eccitazione e di ira salivano correndo giovani zeloti vestiti di nero. Cercavano qualcuno. Urlavano e imprecavano. Avevano mazze e bastoni. Raggiunsero la casa all’angolo della piazza. In quattro si misero agli angoli, pronti a tagliare ogni via di fuga.
Uno di loro, Saulo, sfondò a calci la porta. Si precipitarono dentro, salirono le scale. Due donne urlavano e singhiozzavano; nei ricci capelli il loro terrore. Li vidi uscire. Un vecchio tremava e teneva per la mano un ragazzino. Affianco ad essi un giovane dall’aspetto coraggioso. Seppi più tardi che si chiamava Stefano. Saulo si avvicinò al vecchio e gli sferrò uno schiaffo tremendo. Quello cadde e si mise a piagnucolare. Strisciando si inginocchiò ai suoi piedi e, baciando l’orlo della veste, lo implorava di non farlo morire. Tra le risa dei compagni, Saulo lo fece portare via. Si avvicinò quindi a Stefano. Senza mai guardarlo negli occhi gli gridò che era un rinnegato, un traditore, un bestemmiatore del nome santo di Jahvè. A queste parole anche gli altri si misero a gridare e si fecero sotto, urlando come degli ossessi, sputando e allungando le mani per strappargli i capelli. Stefano era pallido, quasi bianco eppure non sembrava che avesse paura: restava in silenzio, senza difendersi. Anzi, sorrideva Stefano e il suo sguardo sembrava rivolto a qualcuno che solo lui poteva vedere. Saulo, fremente, estrasse dalla tunica una pergamena che recava il sigillo del Sommo Sacerdote. Spiegò che quella carta dava a lui e a suoi camerati il potere, anzi il compito, di difendere la vera religione dai suoi nemici. Che quell’uomo era stato riconosciuto da molti testimoni come un eversore, un contestatore della Legge, un complice di un famigerato criminale, un certo Gesù, già condannato e giustiziato. La gente urlava: “ a morte, a morte!” Ordinai ai miei uomini di tenersi pronti ad intervenire. La piazza si era riempita ormai di una folla sempre più eccitata e inferocita. Mi resi conto che era difficile poter riprendere il controllo della situazione. Non so se fu prudenza o semplicemente codardia ma riposi la mia spada nel fodero.
Stefano taceva pur continuando a sorridere. Un uomo gli mise una mano sul volto, come se volesse strappargli il naso e ficcare le sue unghie negli occhi. Lo spinsero a terra e si misero a prenderlo a calci. In ginocchio, Stefano cominciò a pregare. Quelli cominciarono a prendere delle pietre e a tirargliele addosso. Saulo era bianco per la tensione. Non partecipava al lancio ma urlava incitando gli altri a scagliare i loro sassi. Lo colpirono all’anca che cominciò a sanguinare, poi alla testa, al volto. Sotto i colpi intensificava la sua preghiera. Poi guardò ancora una volta verso Saulo e lo fissò negli occhi. Fu uno sguardo che non potrò mai dimenticare. Sembrava dire: io non posso continuare, lascio a te il testimone. Per la prima volta anche Saulo lo fissò e ne sembrò sconvolto. Urlò ancora qualche insulto verso Stefano ma la sua voce appariva incrinata. Una pietra più grande sfondò il cranio di Stefano e una nuvola oscura avvolse la piazza.
***
Acqua
Lo ritrovai solo molti anni più tardi. Avevo combattuto a Gamala, a Qumran e a Masada sotto il comando di Sesto Lucilio Basso. Ero quindi stato ammesso nella coorte Augusta, tra le truppe scelte dell’esercito imperiale. Navigavamo ora lentamente verso Creta, e avevo l’incarico di portare un centinaio di prigionieri a Roma. Scrutavo le stelle e vi cercavo i segni del mio destino. Un astrologo egiziano mi aveva iniziato ai misteri di Sothis, dell’Oroscopo e dello Zodiaco. Ma quella notte le stelle erano mute e sentivo un’inquietudine agitarsi in me come un mostro scuro che risale dagli abissi del mare. Mi diressi verso poppa, dove stavano in catene i prigionieri. Li osservai dietro le sbarre. Alcuni si lamentavano, altri giacevano sdraiati alla ricerca di un sonno che tardava ad arrivare. Poco distante un gruppo di uomini si era raccolto in cerchio intorno ad una lampada. Un uomo parlava e gli altri lo ascoltavano in un silenzio pieno di venerazione. Mi avvicinai incuriosito. Aveva una voce calda e profonda, la barba folta e i pochi capelli erano d’argento. Dalle rughe del viso si capiva che aveva vissuto molto. Era certamente lui il prigioniero speciale affidatomi dal Governatore Festo. Raccontava in modo appassionato di lunghi viaggi, di genti il cui nome mi era sconosciuto. Lo sentì narrare di fughe, di marce nel deserto, di notti all’addiaccio, di incontri coi lupi. I suoi compagni lo ascoltavano assorti, seguivano gli ampi gesti delle sue mani con le quali disegnava nell’aria la forma delle pianure, dei fiumi, delle vette dei monti che aveva attraversato. Col cuore partecipavano alle sue avventure, trasalivano davanti all’apparire di un brigante, ridevano sollevati quando fuggiva da una prigione calandosi con una cesta dalla finestra.
Ad un tratto si fece serio: riferì di essere era stato un giovane ebreo che cercava la giustizia e la rettitudine nel rispetto della Torah. Di come aveva perseguitato e gettato in carcere coloro che, a causa di nuove idee e stili di vita, ne avevano messo in discussione l’integrità. Narrò (e qui la voce si fece più cupa) di quando, spinto dal suo stesso fanatismo, aveva sostenuto la pubblica lapidazione di uno di essi (e fu solo allora che, con sorpresa e sgomento, lo riconobbi) e di come il pensiero della morte di quell’uomo giusto lo avesse tormentato a lungo. Spiegò che il dolore inferto agli altri lo aveva ghermito fino al punto da fargli provare disgusto di se stesso. Che era diventato cieco e quasi pazzo e dovunque andasse una voce lo inseguiva chiedendogli conto del suo agire. Egli sosteneva che quella voce venisse direttamente da quel Gesù che diceva di essere il figlio di Dio (ma io che non credevo già più a nulla, preferii, quella notte, non considerare quella spiegazione). Infine che solo il perdono di quelli che aveva perseguitato lo aveva riconciliato con se stesso e con la vita. Aveva cambiato il suo nome in Paolo ( “piccolo”) e aveva abbracciato senza riserve proprio quella nuova dottrina che fino a poco tempo prima aveva combattuto.
Profondamente turbato da quel racconto mi allontanai. La sera dopo tornai ad ascoltare di nascosto quell’uomo e lo stesso feci anche le notti successive. Era affascinante, lo ammetto. Aveva una visione globale dei problemi e della complessità del mondo. Aveva parole di incoraggiamento per tutti, di fiducia (la chiamava “fede”), di speranza. Ecco sì, speranza, questa parola la ripeteva spesso. Sosteneva che tutti erano destinati ad essere liberi, senza distinzioni tra ebrei e greci, tra uomo e donna, tra schiavi e uomini liberi. Perché la vera libertà stava nell’amare il prossimo come se stessi e che quella libertà era stata conquistata per primo da Gesù Cristo che aveva amato gli altri fino a dare spontaneamente la vita per loro.
Udire quelle parole assurde fu come uno schiaffo e ne rimasi inorridito. Come può un Dio morire per quegli animali immondi che sono gli uomini? Troppe le atrocità, troppi i tradimenti, le menzogne, il sangue. Quel sangue di altri uomini che io stesso ho versato sui campi di battaglia. Amore, carità? Che diritto abbiamo di pronunciare quelle parole in questo tempo di violenza? Non aveva visto quell’uomo, che diceva di conoscere il mondo, i villaggi bruciati, le donne stuprate, i bambini passati a fil di spada? Gli Dei, se esistono, sono immortali, perfetti, siderali nelle loro virtù: Marte, la forza. Venere, la bellezza, Minerva la saggezza. Essi non cercano la vicinanza con i mortali, se non per divertirsi a scompigliarne il destino. Come i gatti quando giocano coi topi. E quando non ci sono i gatti i topi si sbranano fra di loro.
Eppure, nonostante lo scandalo di quelle parole e il sentimento di follia che agitavano in me, sentivo un interesse crescente per quelle idee radicali e inaudite. La vita di quell’uomo, la sofferenza che aveva provato, le sue stesse contraddizioni me le rendevano credibili. E si apriva alla mia immaginazione la percezione che era possibile un mondo diverso.
Dopo averlo tanto cercato giunse infine il vento. Il mare ingrossava le onde e una pioggia battente sferzava il ponte. Fu presto una tempesta. Il fasciame della nave era messo a dura prova. Il pilota non riusciva a governare e la nave andava alla deriva. Restammo così, in balia delle onde, senza mai vedere né il sole né le stelle, per due settimane. Si diffuse il panico a bordo. Per errori, per incompetenza, per disperato egoismo andarono perdute le attrezzature di soccorso. Una scialuppa cadde in mare, vennero abbandonate persino le ancore. La nave girava su stessa, sbattuta con violenza dalle onde che la coprivano di schiuma. La tempesta era sempre più forte e i passeggeri, convinti che la nave sarebbe colata a picco, avevano abbandonato ogni speranza. Ci fu un tentativo di ammutinamento da parte di tre ufficiali. Rigai loro la schiena con lo scudiscio. Compresi però che questo non sarebbe bastato a sedare una seconda rivolta e decisi di tentare ciò che mai avrei immaginato. Chiamai sul ponte il prigioniero, quel Paolo di Tarso la cui lingua poteva essere più efficace della mia frusta. Gli chiesi di riportare l’ordine sulla nave lasciandogli intendere che avrei potuto liberarlo. Contrariamente a ciò che mi aspettavo egli non minacciò nessuno, non promise punizioni a chi si rivoltava, né castighi per chi disobbediva. Semplicemente si disse certo che tutti sarebbero sopravvissuti. Raccontò di una promessa del suo Dio ricevuta in sogno: che neppure una vita sarebbe andata perduta. Tutti gli credettero. Seppe suscitare in ciascuno di noi la speranza e la fede di poter vivere ancora. Dovevamo restare uniti. Sostenerci come fratelli. Il suo Dio ci avrebbe aiutati.
Ed infine facemmo naufragio. Quella notte la nave si arenò contro una secca. L’isola sembrava non lontana. La prua però era immobilizzata e la poppa si sfasciava sotto i colpi delle onde. I miliziani, prima di abbandonare la nave, mi chiesero l’autorizzazione di uccidere i prigionieri, come era consuetudine, per evitare che fuggissero. Con loro (con mia) sorpresa rifiutai sdegnato e ordinai di aprire le celle. Poi ci trovammo in mare a lottare con le braccia, contro le onde. La corazza che tante volte mi aveva protetto mi trascinava verso l’abisso e sentivo le forze venirmi meno. Cominciai a bere e a gridare ma nessuno poteva udirmi perché i tuoni della tempesta sovrastavano ogni cosa. Rividi per un istante mia madre, la casa di quando ero ragazzo, il primo bacio, tutte le mie battaglie, le vittorie e le sconfitte. Stavo cedendo al richiamo dell’abisso quando guardai ancora una volta verso l’alto. Vidi un uomo che nuotava non lontano aggrappato ad una zattera. Era lui, Paolo, ne fui subito certo. Con le ultime forze lo chiamai, lo fissai disperatamente in volto. Il mio sguardo diceva: ti supplico, salvami, non ce la faccio più. Anche Paolo mi guardò e fu un istante che durò per sempre. Lo sentii sbuffare e dirigersi verso di me. Sentii il suo braccio forte issarmi sulla zattera. Poi non ricordo più nulla se non il fuoco caldo sulla spiaggia quando mi risvegliai.
***
Fuoco
Molti anni sono trascorsi e molte miglia ho percorso. Sono solo un soldato ma una cosa mi è ormai chiara: l’Impero è malato. Lotte, vizi, congiure. Il nemico non è più alle frontiere ma dentro di noi. E poi dappertutto queste nuove dottrine, queste sette, questi cristiani… sono annidati ovunque, persino nell’esercito.
Nerone lo ha compreso: essi corrodono come tarli le fondamenta dell’impero. Scavano cunicoli, gallerie, catacombe. Fanno propaganda. Seducono anche le classi più agiate. Persino Seneca, che dell’Imperatore è stato il maestro, ne ha subìto il fascino. Nerone lo ha dovuto sopprimere. Suicidio, dissero, ma sappiamo bene come vanno queste cose… E poi il grande incendio purificatore. Nerone lo ha voluto, anche se negherà per sempre. Il fuoco dappertutto. Bruciati i palazzi, i mercati, le piazze. L’Urbe è solo devastazione. L’aria è densa di fumo e un odore nauseabondo si leva in ogni dove. Non è solo una questione di cadaveri: come vi ho detto è l’Impero che sta marcendo. Nella mia veste di ufficiale della polizia imperiale mi è stato affidato il compito di rimuovere la cancrena. I miei pretoriani passano di casa in casa a stanare gli incendiari. Nerone lo ha stabilito: sono stati i cristiani. Incendiari… Sì, anch’io lo penso, ma è un incendio diverso il loro. E’ fatto di idee. Non credo basterà la repressione. I miei uomini li flagellano, li danno in pasto ai leoni, li appendono alle croci. Eppure il terrore non basta. La morte li rafforza.
Ho speso la vita combattendo per l’Impero. Sono stato un soldato leale. Non ho mai disertato e ho cercato di vivere secondo l’insegnamento dei nostri avi. Grazie alla mia generazione mai Roma fu più forte nel mondo. Eppure io vedo quanto nella sua forza sia grande la sua debolezza. Io stesso non mi sento immune da questa malattia. Né per me, né per Roma ho più sogni o speranze. Sento scendere l’inverno sulla mia vita e tutto mi dà noia e disgusto. Forse ho vissuto troppo e non attendo più un cambiamento.
Sfila davanti a me una colonna di condannati. Alcuni chiedono pietà. Ma pietà è una parola che non posso, non voglio più intendere. Non c’è più spazio per l’umanità. Sono diventato anch’io parte di un ingranaggio. Il mio compito è sopprimerli. Se non lo facessi la macchina imperiale sopprimerebbe anche me.
Nella fila di prigionieri scorgo un volto. Mi pare noto. Cerco nella memoria il ricordo di un giorno di primavera in cui ero stato felice. Ritrovo l’immagine di una tempesta e di un naufragio. Paolo è davanti a me. Vecchio ma diritto. In catene ma non domito. Il cuore mi batte all’impazzata. Vorrei essere lontano mille miglia. In Lidia, in Tessaglia, persino in Tracia. Ma non qui, non qui! Non qui davanti a quest’uomo debole, che nella sua debolezza trova tutta la sua forza. Cosa ho commesso perché gli dei abbiano voluto giocare in questo modo con il mio destino? Perché io?
Paolo viene fatto inginocchiare dinanzi a me che rappresento l’autorità imperiale. Il mio attendente gli ordina di confessare i suoi crimini prima di morire e di giurare fedeltà a Nerone. Paolo tace e mi fissa in volto. Ordino al mio attendente di allontanarsi e di lasciarci soli. Dico soltanto: “ Tu sai che stai per morire?” Paolo risponde: “Io sono certo che né vita né morte, né alcuna creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore”. Poi aggiunge: “Ho completato la mia corsa, ho mantenuto la mia fede”. Il suo sguardo limpido mi penetra. Comprendo che mi sta offrendo il testimone. Alzo la spada ed egli mi sorride. Sento in me morire un vecchio. Chiudo gli occhi e colpisco sul collo con tutta la forza che trovo. La terra si tinge di rosso.
***
Può la morte preparare la vita?
Può la notte annunciare il giorno?
O Signore, so di non esserne degno, ma di’ soltanto una parola e io sarò salvato.
NOTA: Pur trattandosi di un racconto immaginario il testo riporta tre episodi della vita di San Paolo descritti rispettivamente nei capitoli 7 (versetti 54 e seguenti) e 27 degli Atti degli Apostoli e nella prima lettera di Clemente Romano ai Corinti (capitolo 5). Il centurione Giulio compare soltanto al capitolo 27 degli Atti.