180 sì storici del Senato
Ieri in Senato è stata scritta una pagina di storia. VIVA L’ITALIA!
Di seguito il discorso del Presidente del Consiglio Matteo Renzi.
Signor Presidente del Senato, onorevoli senatrici e onorevoli senatori, prendo la parola per ringraziare tutti i membri del Senato, quelli di maggioranza e quelli di opposizione, quelli che hanno votato e voteranno per le riforme e quelli che hanno votato contro, quelli che sono stati convinti fin dal primo minuto e quelli che hanno lavorato a compromessi e a sintesi, quelli che hanno discusso a lungo nel merito in questi due anni di lavoro.
Prendo la parola per ringraziare la Presidenza del Senato, il suo Presidente e gli Uffici, sottoposti ad un iter parlamentare particolarmente impegnativo. Prendo la parola per ringraziare la signora ministra Boschi, per la straordinaria determinazione e la tenacia che ha mostrato in questo lungo e non facile iter.
Prendo la parola per ringraziare i Capigruppo, tutti, ma con un particolare pensiero ed apprezzamento per quei Capigruppo che hanno sostenuto, anche con qualche difficoltà, questo testo. E lo faccio anche con rispetto verso quei Capigruppo che, per motivi politici, hanno dovuto cambiare idea.
Prendo la parola per ringraziare tutte le senatrici e i senatori. Tra tutti, scelgo la presidente della 1ª Commissione Finocchiaro, per il suo decisivo supporto.
Alcune brillanti e discutibili innovazioni costituzionali, che personalmente avevo proposto all’attenzione, sono state praticamente subito cancellate dalla Presidente della 1a Commissione, dalla signora Ministra e da tanta parte del dibattito, trovando in tutti voi uno scoglio insuperabile. Credo che non sia un danno irreparabile, ma mi ha fatto piacere poter condividere molte valutazioni e considerazioni.
Signor Presidente, mi permetterà infine ringraziare chi adesso siede sui banchi del Senato, ma che è stato decisivo per tutti i nove anni del suo mandato presidenziale, il senatore e presidente emerito della Repubblica Napolitano.
Se non ci fosse stato il suo discorso che tutti voi membri del Parlamento avete vigorosamente applaudito nell’aprile 2013 non ci sarebbe questa riforma e non sarebbe in piedi questa legislatura. È bene dirlo con molta forza.
Sono qui non solo per un elenco di ringraziamenti; sono qui per rendere omaggio, signori del Senato, a voi, un omaggio non formale, ma sincero e profondo. Credo che la storia si occuperà di questa giornata. La storia politica italiana si occuperà di questa giornata. La storia sarà gentile con voi, gentili senatrici e cari senatori. Come avrebbe detto un grande statista inglese, avete scelto di scrivere la storia e non di leggerla. Il gesto che avete compiuto per due volte acconsentendo con un voto a maggioranza assoluta a superare il Senato non ha eguali, non nella storia italiana, ma nella storia delle istituzioni europee. Il gesto che avete compiuto contro l’autoreferenzialità bloccando quel nastro trasportatore di pregiudizi contro la politica riafferma, senatore Tronti, la centralità della cosa pubblica come valore assoluto, indipendentemente dalle discussioni di una parte e dell’altra. Si può essere d’accordo o meno con la riforma. Come è noto, non abbiamo le stesse opinioni, ma il Paese vi deve, gentili senatrici e cari senatori, una gratitudine istituzionale alla quale voglio aggiungere la mia personale.
Due anni fa presi la parola in quest’Aula per presentare il Governo che l’allora Presidente della Repubblica mi aveva incaricato di formare. Era un Governo molto snello, il secondo più snello nella storia dei 63 Governi repubblicani in termini numerici e quello con la maggior presenza di donne e con il livello di età più basso della storia repubblicana. Io stesso, quando parlai qui in Senato, non avevo l’età per poter sedere tra voi. Il Governo aveva un obiettivo talmente impegnativo da suonare per alcuni di voi irrealistico: mettere in cantiere e realizzare a passo di carica tutte le riforme che, nel bene e nel male, erano state promesse ai cittadini italiani e sui quali questo Paese si era impegnato a livello europeo. Era un programma considerato ambizioso dagli amici, temerario dagli osservatori e impossibile dagli avversari. Correva il mese febbraio 2014, neanche ventiquattro mesi fa. Il PIL del Paese aveva chiuso l’anno a -1,9 per cento, bissando la tristeperformance dell’anno precedente (-2,3). La disoccupazione era oltre 13 per cento e quella giovanile superava il 46 per cento secondo i dati ISTAT. Gli indici della fiducia di consumatori e imprese erano ai minimi storici e anche la confidenza verso la politica e le istituzioni era in terreno ampiamente negativo. In Europa i riferimenti all’Italia erano fatti accomunandola sempre e comunque alla Grecia e le parole d’ordine del dibattito continentale erano soltanto privatizzazione e austerity. Abbiamo accettato una sfida nel momento più difficile e, quando ho parlato in Aula davanti a voi, ho esordito con una provocazione. Qualcuno tra voi, onorevoli senatori, anche e soprattutto del mio partito, ancora non me l’ha perdonata fino in fondo e non credo che sia stato per le mani in tasca o per il discorso a braccio. Non me l’avete perdonata perché la provocazione era molto forte: voglio essere l’ultimo Presidente del Consiglio che chiede la fiducia a questa Aula. Ricordo gli sguardi e ricordo i risolini, ma se questa Assemblea, tra poche ore confermerà il voto già espresso nell’agosto del 2014 e nell’ottobre del 2015, quella previsione, che sembrava ardita, diventerà realtà. Ed è grazie al vostro impegno, in questi due anni, se la situazione del Paese è diversa rispetto al febbraio del 2014. Il prodotto interno lordo (PIL) è passato da -1,9 per cento a +0,8 per cento, la disoccupazione è scesa poco sopra all’11 per cento, quella giovanile è stabilmente sotto il 40 per cento, gli indici di fiducia sono ai massimi degli ultimi quindici anni e i consumi tornano a crescere.
L’Italia non va bene. L’Italia va meglio; e l’Italia va meglio perché la politica ha dimostrato che, credendoci, si possono realizzare delle riforme. Poi ci si può dividere nel merito, ma dopo anni di ubriacatura di acronimi, come TINA (there is no alternative: non ci sono alternative), di considerazioni rispetto all’inutilità della politica, di subalternità della politica rispetto ai fenomeni economici e finanziari, dopo anni in cui il qualunquismo è andato in scena persino nei dettagli, la politica ha ripreso il proprio posto in questo Paese, con un disegno organico, portato avanti dal Parlamento della Repubblica, nei suoi due rami – il Senato della Repubblica e la Camera dei deputati – i cui confini sono finalmente visibili oggi. Abbiamo iniziato dunque a rimodulare il sistema istituzionale, quello economico e quello amministrativo. Nel tempo di quella che qualche pensatore definisce la “vetocrazia”, ovvero il potere dato a chi ha diritto di veto, abbiamo reso più semplice la capacità di decidere. Facendo così, è come se avessimo restituito all’Italia un diritto, il diritto al futuro, che veniva negato da chi aveva un’ idea striminzita del futuro di questo Paese.
Dunque, possiamo pensarla in tutti i modi, possiamo avere le opinioni più disparate, possiamo credere e dividerci su tutto, ma non possiamo negare che, in questa legislatura, questo Parlamento – del quale peraltro non faccio parte – ha messo mano, in un arco di tempo così ristretto, alla riforma di una legge elettorale, che una sentenza della Corte costituzionale aveva giudicato illegittima, arrivando al punto di mettere in scacco e in stallo la situazione politica, e ha creato, nell’arco di qualche mese, una riforma del lavoro, sulla cui valutazione sarà la storia, o forse la cronaca, a dire quello che abbiamo fatto. Non vi è dubbio, però, che i dati ISTAT e INPS degli ultimi giorni dimostrino, in modo inoppugnabile, che finalmente la curva è tornata a crescere: +510.000 contratti di lavoro a tempo indeterminato, il che significa, per un ragazzo, per un giovane, non un foglio di carta, ma la possibilità di un diritto al futuro, a una casa, ad un figlio e ad una prospettiva.
C’è poi la riforma della pubblica amministrazione (che questa sera vedrà i primi decreti legislativi uscire dal Consiglio dei ministri) la riduzione di tasse considerate a torto o a ragione insopportabili (Commenti del senatore Martelli), come la tassa sulla prima casa, ma anche la componente lavoro dell’IRAP o quelle legate alla agricoltura. Potrei continuare, dal tema che sento più caro, quello della cooperazione internazionale, fino ai temi legati alla giustizia civile.
Non entro nel merito delle singole riforme, dico che con oggi si chiude un percorso straordinario, che ha segnato il cammino di questi ultimi due anni, con un metronomo di emergenza, che ha visto l’Italia fare, in pochissimo tempo, cose che, per anni erano rimaste ferme nella palude dello stallo: il Titolo V più chiaro, mai più la doppia fiducia, il procedimento legislativo semplificato, l’abolizione dalla Costituzione di enti inutili (presunti tali, naturalmente). C’è però un punto chiave di questa discussione, e lo voglio citare qui in Senato, non perché non valga anche alla Camera dei deputati, ma perché qui c’è il valore politico di ciò che è accaduto: il superamento di un pregiudizio che eclissava la fiducia nella cosa pubblica e nella politica, ovvero l’idea che dei legislatori non potessero intervenire sul proprio ramo del Parlamento. Questo è il punto chiave, che sta cambiando la percezione della politica da parte dei cittadini.
Quanti hanno sognato questo momento? Generazioni di parlamentari hanno immaginato che si potesse superare il bicameralismo paritario. L’Assemblea costituente, per chi ha avuto la fortuna, anche all’università, di poter leggere quelle carte straordinarie, aveva discusso a lungo sul modello del bicameralismo e dobbiamo riconoscere che il bicameralismo paritario (o perfetto) era considerato il compromesso di allora, non era la prima scelta di nessuna delle forze politiche in campo. Il dibattito dei settant’anni successivi (Commenti dal Gruppo M5S) ha visto la Commissione Bozzi, la Commissione De Mita, la Commissione Iotti, la Commissione D’Alema, il lavoro degli anni 2000 costantemente tornare attorno a questo punto: superare il bicameralismo paritario.
Non è questo, tuttavia, il valore più grande di oggi; non è in questo pur grande passaggio di fase, come si sarebbe detto. Il valore più grande è che questo è il giorno che un’intera generazione di parlamentari chiamava il giorno che non doveva arrivare mai; questo è il giorno cui nessuno credeva saremmo arrivati e ci siamo arrivati perché voi avete avuto coraggio e fiducia.
Voglio esprimere un solo punto nel merito della riforma e desidero dirlo alle opposizioni, con il rispetto che si deve a chi non voterà e a chi ha espresso – devo dire in modo molto chiaro – valutazioni negative sul testo o, com’è accaduto, sulle modalità di presentazione di questa riforma. Si può essere d’accordo o meno; si può – lo dico con grande rispetto al senatore Paolo Romani – aver cambiato idea dal percorso iniziale, che era volutamente inclusivo e ampio; si può aver cambiato idea con tutte le edulcorate considerazioni tecniche di questo mondo, anche perché non dimentico che questa è una legislatura nella quale qualche Gruppo ha definito fascista un disegno di legge approvato in un ramo del Parlamento dallo stesso Gruppo, ma nella componente dell’altra Camera. Mi rendo quindi conto che in questo periodo ci sono state discussioni interne ai partiti, che rispetto. Vi è, però, un punto che voglio dire con chiarezza e che paradossalmente può essere persino considerato come il punto debole anche da qualcuno che voterà a favore di questa riforma: noi non tocchiamo il sistema di pesi e contrappesi previsto dalla Carta costituzionale. Questo punto deve restare chiaro. Lo dico perché qui dentro, anche tra chi vota a favore della riforma, c’è chi sostiene – e io lo rispetto – che non aver scelto il presidenzialismo o il semipresidenzialismo, non aver fatto questa scelta, è un errore. Questo disegno di legge di riforma costituzionale, che modifica il bicameralismo, che interviene sui poteri delle Regioni, che cancella per sempre il CNEL e le Province dal vocabolario costituzionale (Commenti dal Gruppo M5S), non incide sul ruolo della Presidenza della Repubblica e degli organismi di contrappeso, come sono stati definiti dal Costituente del 1946.
Se c’è questo – e c’è – io credo che occorra l’onestà intellettuale di prendere atto che questa riforma, molto semplicemente, cerca di rendere meno ingessato un sistema parlamentare, che nell’arco degli ultimi settant’anni ha prodotto 63 Governi e che presenta una qualità dei legislatori di grandissimo livello, ma che ha delle procedure talmente farraginose da essere unanimemente considerate da cambiare.
La legislatura che era iniziata non aveva un futuro. Io non voglio ripescare le ragioni politiche, istituzionali e sociali della frattura che il voto del 25 febbraio del 2013 aveva lasciato nel panorama politico. Nei primi giorni del nostro Governo ci hanno detto che erano all’opera i dilettanti (qualcuno lo pensa anche adesso). Sarebbe interessante, caro senatore Tronti, recuperare, a proposito di concezione weberiana, nell’opera «L’etica protestante e lo spirito del capitalismo», la definizione che Weber dà dei professionisti, di alcune delle persone che egli definiva in modo abbastanza intrigante, per chi ama quelle pagine. Io dico soltanto, in modo molto più banale, che sono affezionato all’immagine per cui i dilettanti hanno costruito l’arca di Noè mentre i professionisti hanno fatto il Titanic. Nell’arco dei due anni nei quali abbiamo avuto l’onore di poter governare questo Paese, è cambiato un passaggio fondamentale: è tornata in campo la consapevolezza che se l’Italia vuole le cose le fa.
Mancano due anni alla fine di questa legislatura. Non sono tanti. Sono settecentotrenta giorni, giorni di fatica, di lavoro e di impegno; non ne perderemo neanche uno, sfruttando ogni minuto per fare del nostro meglio per far ritornare l’Italia tra i Paesi leader nel mondo. Certo, ci dicono che è impossibile ogni giorno. Ci dicevano che era impossibile superare il bicameralismo, tant’è che si era pensato, anche con il voto di quest’Aula, di procedere con la revisione ex articolo 138 con una Commissione ad hoc proprio perché non si aveva fiducia nel fatto che si sarebbe raggiunto l’obiettivo. Ogni giorno ci dicono che è impossibile riportare l’Italia alla guida dell’Europa; ogni giorno ci dicono che è impossibile rilanciare gli investimenti nel nostro Paese; ogni giorno ci dicono che è impossibile riformare la pubblica amministrazione o considerare l’Africa come la più grande scommessa dell’Europa di oggi. Ogni giorno ci dicono che è impossibile abbassare le tasse e che è impossibile ridurre le aziende partecipate degli enti locali, che è impossibile fare dell’ICT, dell’innovazione tecnologica la più grande arma contro l’evasione fiscale, che è impossibile far uscire il Sud dalla rassegnazione e dalla paura.
Ogni giorno ci dicono che è impossibile stabilire, a livello mondiale, l’equazione per cui un euro investito in sicurezza significa un euro investito in cultura. Ogni giorno ci dicono che è impossibile ma noi lo facciamo. Lo facciamo perché i professionisti del fallimento, capaci di sghignazzare ma non di proporre, sono coloro i quali ci dicono tutti i giorni che tutto è impossibile. Rifiutano lo stupore, rifiutano la meraviglia, rifiutano la ricerca e pensano che il mondo sia un luogo in scala di grigio dove l’unica scommessa possibile sia quella sul fallimento dell’Italia. Queste persone devono sapere che alla guida del Paese più bello del mondo… c’è una generazione, un gruppo di persone che è in grado di credere nell’Italia nei suoi valori, nei suoi cittadini, nella sua possibilità di cancellare la parola «impossibile».
A questo punto, non c’è che una strada, che non è quella di continuare il dibattito nel merito della riforma costituzionale, (siamo pronti a farlo, prendendo i testi uno per uno)…ma è quella di accettare la sfida. In questi due anni vi hanno urlato dietro costantemente, care senatrici e senatori che avete votato a favore. Quante volte vi hanno detto: «fate le riforme al chiuso delle stanze ma il popolo non è con voi». Andiamo a vedere da che parte sta il popolo su questa riforma. Andiamo a vedere da che parte staranno i cittadini su questa riforma!
Andiamo a vedere se i cittadini la pensano come coloro i quali sanno solo urlare e scommettono sul fallimento o stanno dalla parte di quelli che credono nel futuro dell’Italia. Sono gli italiani i nostri punti di riferimento. Sono gli italiani che in questo momento assistono a queste scene dalla tribuna e si domandano per quale motivo si debba interrompere un intervento e pensano che l’educazione civica che hanno imparato a scuola significhi innanzi tutto ascoltare e poi replicare; sono questi bambini, questi ragazzi. Sono gli italiani che noi chiameremo in Aula, chiameremo in casa, chiameremo ai seggi, andremo casa per casa. È considerata una minaccia da chi non ha una grande esperienza di voti popolari presi personalmente. Chi ci accusa oggi di plebiscito è lo stesso che ieri ci accusava di autoreferenzialità, in una curiosa alternanza di accuse mosse più da un risentimento personale e politico che non da un giudizio oggettivo sulla realtà. Ma ci deve essere una presa di responsabilità totale e globale. Ho personalmente affermato davanti alla stampa, e lo ribadisco qui davanti alle senatrici e ai senatori, che nel caso in cui perdessi il referendum, considererei conclusa la mia esperienza politica. L’ho fatto perché credo profondamente in un valore: la dignità del proprio impegno nella cosa pubblica.
Penso a quando qualcuno, in questo dibattito, ha scomodato il personalismo, ignorando che c’è una grande distinzione tra il personalismo e la personalizzazione (lasciatevelo dire da chi è cresciuto con Maritain, con Mounier, con il pensiero del personalismo comunitario: non è che perché uno ha Twitter allora ha dimenticato i punti di riferimento, i padri nobili del pensiero da cui proviene). Ma il punto chiave di questa discussione oggi non è la personalizzazione esasperata, non è il tentativo di trasformare un referendum in un plebiscito; è recuperare quel filo di credibilità della persona e dell’impegno pubblico.
Com’è possibile immaginare, dopo una cavalcata così emozionante e straordinaria, unica in settant’anni, di poter andare ad un referendum su quella che è la madre di tutte le riforme e di non trarne le eventuali conseguenze, qualora non vi fosse un voto positivo? Com’è possibile non prendere atto che è terminata la stagione dell’impegno politico fatto a prescindere dal consenso dei cittadini? Com’è possibile immaginare che, in un momento come quello che noi stiamo vivendo, non possiamo provare a rendere palese ed evidente la grandezza della sfida di fronte alla quale ci troviamo?
Questa sfida dimostra che il potere che noi esercitiamo e dal quale non ci nascondiamo – perché la parola «potere» non è positiva, né negativa: è uno strumento di servizio a favore di un’idea e di un processo di cambiamento del Paese – ha un senso se viene messo in campo per cambiare l’Italia.
Io prendo qui l’impegno esplicito: in caso di sconfitta ne trarremo le conseguenze.
Ma dico anche che, proprio per questo motivo, sarà affascinante vedere le stesse facce gaudenti di adesso il giorno dopo il referendum, quando i cittadini, conla riforma, avranno dimostrato da cheparte sta l’Italia. Stanno dalla parte di chi ci crede, di chi ci prova, di chi non passa il tempo a lamentarsi. Questa è l’Italia che sta ripartendo.
Nei momenti chiave del mio impegno politico, come questo, mi capita di ripensare alla mia formazione educativa, legata allo scoutismo. Con un’espressione programmatica, che molti conoscono anche in quest’Aula per esperienza personale, il mondo scout dice: «Pongo il mio onore nel meritare fiducia». In due anni non riesco a contare il numero delle volte in cui vi abbiamo chiesto la fiducia. In questo abbiamo, forse, esercitato un record non positivissimo. La cosa bella è che non ce l’avete mai negata, anche quando non eravamo d’accordo su tutto. Lo dico perché, pur non essendo presente in Aula in quel momento, ho ben presente la fatica e la sofferenza con cui, ad esempio, alcuni di voi – a partire da alcuni senatori del mio partito – hanno votato l’inasprimento delle sanzioni sul cosiddetto omicidio stradale.
Ma nel dare fiducia al Governo avete dato fiducia al più grande processo di cambiamento mai realizzato. Il fatto che susciti entusiasmo e ilarità in alcuni colleghi il ricordare che tutte le volte che noi abbiamo ottenuto la fiducia è la dimostrazione che almeno possono restare per un po’ in questa legislatura e sono più tranquilli anche loro. Il punto vero però è che le riforme costituzionali non fanno mettere le fiducia, ma hanno restituito fiducia agli italiani.
Se il Senato è in grado di superare se stesso significa che niente è impossibile per l’Italia; significa che la politica non è soltanto un incrocio di lame verbali in qualche rissoso talk show; che la politica è la forma più alta di servizio civile; che la politica è oggi lo strumento attraverso il quale l’Italia può ripartire. Dopo decenni in cui si è accarezzata l’antipolitica, paradossalmente oggi è proprio la politica quella che sta facendo ripartire l’Italia.
Per mesi ci hanno raccontato una storia avvincente come una fiaba, ma anche falsa come una fiaba: ci hanno raccontato che l’Italia stava ripartendo per fattori esterni.
Ci hanno detto che il petrolio a 20 dollari avrebbe salvato il Paese. Ci rendiamo conto che gli sconquassi geopolitici che sta creando sono tali da mettere paradossalmente in discussione, dal punto di vista geopolitico, la situazione economica? Cambiano gli equilibri; si sta combattendo una guerra sul prezzo dell’energia. Ci hanno raccontato per anni che l’inflazione sarebbe ripartita con il quantitative easing (QE), che è un fatto importante ma non riesce a far ripartire l’inflazione per il momento. Se, allora, questi fattori esterni ci hanno sicuramente consentito di stabilizzare alcuni settori, è anche vero che non sono i fattori esterni ad aver fatto ripartire l’Italia; è stato il fatto che finalmente si è rimesso in moto il meccanismo delle riforme.
L’Italia riparte se ripartono i consumi interni; se c’è la fiducia della gente; se finalmente si interrompe un racconto negativo che per vent’anni ci siamo portati dietro, in cui, dopo essere stati per cinquant’anni i leader della crescita al livello globale, siamo improvvisamente diventati il fanalino di coda, la Cenerentola della crescita perché abbiamo smesso di considerare come punti di riferimento i nostri elementi di forza.
Oggi l’Italia c’è. C’è con l’imprenditore che non ha licenziato durante la crisi con la professoressa che lavora sodo con i suoi studenti, quelli che sono stati assunti nonostante che qualcuno li definisse “deportati”; c’è con l’artigiano, che vede nella globalizzazione la più grande occasione per l’Italia e non il nemico (altro che fuga dall’euro: è l’Europa la più grande occasione, se l’Europa smette di parlare soltanto di austerity e prova finalmente a imboccare la strada della crescita). C’è con l’innovatore, che segue una buona idea, anche se spesso è su sentieri sconosciuti. C’è con il nonno, che sempre di più è la colonna finanziaria di uno o più famiglie; c’è con il funzionario pubblico onesto, che non ne può più di qualche collega che continua a provarci attraverso meccanismi truffaldini. A questa Italia avete dato una dimostrazione; avete detto che c’è un Senato e ci sono senatori che mettono in discussione il proprio ruolo, che mettono in discussione il proprio impegno, che sono capaci di guardare al domani con coraggio, fiducia ed entusiasmo.
Questa Italia che noi frequentiamo, che noi conosciamo tutti i giorni, è un’Italia che oggi vede nel Senato della Repubblica la più straordinaria delle storie possibili, e quella alla quale non avrebbe mai creduto: la classe politica che dà l’esempio.
Io credo che sì, come diceva quello statista inglese: la storia si occuperà di voi. Adesso c’è il tempo – giusto un attimo – per fermarsi a guardare che cosa abbiamo fatto; c’è tempo – giusto un attimo – per dirvi grazie, per ringraziarvi sinceramente dal profondo del cuore. Poi, di nuovo in marcia, di nuovo determinati e sorridenti, capaci di non rispondere alle provocazioni, coraggiosi e umili, tenaci e allegri, raccontando un’Italia che non è quell’insieme di disgrazie che qualcuno vuole continuare a rappresentare; sapendo che è un grande dono poter avere la responsabilità di guidare il Paese più bello del mondo, ma sapendo anche che nessun obiettivo può essere raggiunto se non si ha la voglia di ripartire.
E allora sì, avete scritto una pagina di storia, senatrici e senatori. Adesso, però, vi propongo di continuare e, per i prossimi due anni, di scrivere la pagina di un futuro possibile per un Paese che ha straordinario bisogno di politica. Viva l’Italia!