(PD). Signor Presidente, con il provvedimento in esame si compie un ulteriore passo in avanti verso quello che è un progetto più complessivo che caratterizza l’azione di questo Governo.
Non ho bisogno di ricordare ai colleghi che in questi giorni siamo fortemente impegnati nella discussione di un progetto di riforma della Costituzione, in modo particolare del bicameralismo paritario. Oggi, con il provvedimento in discussione, aggiungiamo un ulteriore tassello che mira alla riforma della pubblica amministrazione. I due provvedimenti vanno letti in una medesima logica di modernizzazione, nell’ambito di un progetto complessivo di riforma del nostro Paese. (Brusio). Chiedo cortesemente ai colleghi alle mie spalle di abbassare il tono della voce.
Voglio dire innanzitutto che senza la burocrazia – termine che ha oggi una connotazione negativa – in realtà non c’è possibilità di avere un sistema efficiente ed uno Stato moderno. (Brusio).
PRESIDENTE. Colleghi, per cortesia, abbiamo iniziato la discussione.
COCIANCICH (PD). La burocrazia è la prima grande risorsa di un Paese, la vera risorsa strategica di uno Stato. Si tratta di quel corpo di funzionari e di dirigenti grazie al quale è possibile dare attuazione alle politiche amministrative e dell’Esecutivo: per questo motivo esso deve essere rispettato e deve riacquisire dignità e fiducia nel proprio ruolo per lo sviluppo del Paese. Le grandi democrazie e gli Stati moderni, a cominciare dalla Francia, hanno investito in maniera significativa, costituendo delle scuole di alta amministrazione dalle quali vengono prelevati i funzionari di più alto prestigio di un Paese.
Il nostro compito, quindi, non è oggi quello di concorrere a gettare discredito e sfiducia su tre milioni di dipendenti pubblici, che invece costituiscono per noi l’orizzonte di una rinascita del Paese. Abbiamo però bisogno di trasformare questa riorganizzazione della pubblica amministrazione e di fare in modo che oggi non sia più un fardello per le imprese e per i cittadini, ma che diventi invece quell’aiuto e quel volano allo sviluppo di cui abbiamo così rilevante necessità.
Oggi in realtà la burocrazia è percepita come un onere aggiuntivo – e in certi casi lo rappresenta – anche indiretto, all’imposizione fiscale, che già raggiunge nel nostro Paese livelli record. In effetti, gli adempimenti richiesti alle imprese per poter adempiere e essere in compliance con i requisiti della normativa sono talmente bizantini e pesanti che sono necessarie risorse aggiuntive per le imprese per poter sostenere questo onere burocratico.
Di fatto, oggi, chi si vuole mettere in regola con gli oneri burocratici subisce uno svantaggio competitivo rispetto a coloro che invece cercano delle scorciatoie. Di conseguenza cresce il discredito nei confronti della pubblica amministrazione.
È invece necessario che la pubblica amministrazione attribuisca a se stessa questa sfida di rigenerarsi per rigenerare il Paese. Ciò implica un rinnovamento di idee, una semplificazione delle procedure, una migliore gestione delle risorse, una valorizzazione delle competenze ma anche un ricambio generazionale, quindi la capacità di utilizzare in modo più consapevole ed efficiente le tecnologie digitali.
Una parte significativa del disegno di legge oggi in discussione riguarda per l’appunto l’utilizzo più efficiente delle tecnologie digitali, per le quali sono già stati compiuti passi in avanti anche nel settore della giustizia, uno di quelli ai quali viene rimproverata la maggiore responsabilità per il ritardo degli investimenti nel nostro Paese. Se oggi in Italia non vi sono investimenti da parte di aziende e imprese straniere ciò non dipende dal costo del lavoro bensì dai ritardi della pubblica amministrazione e, in modo particolare, dai ritardi che riguardano i tempi della giustizia, la possibilità di ottenere in tempi brevi certezza del diritto, di recuperare crediti che diventano via via sempre più inesigibili: un ulteriore costo che le aziende non sono più disposte a sostenere.
Quindi, questo recupero di un senso di prestigio perduto, la consapevolezza che i funzionari e i dirigenti sono al servizio dello Stato, della collettività e dei singoli cittadini passa anche attraverso una forma di autolimitazione di quelli che oggi sono concepiti come luoghi di privilegio, tanto più inaccettabili in quanto oggi la dimensione del rischio, della precarietà, della fatica del vivere quotidiano sono il segno caratteristico della vita della stragrande maggioranza dei nostri concittadini. Di conseguenza, quelle che una volta erano le tutele e le garanzie dei dipendenti pubblici oggi sono percepite come un luogo di privilegio non più al servizio della collettività, ma come una sorta di oasi protetta in cui non vi è un rischio, vi è una carriera automatica, non vi è possibilità di essere trasferiti a funzioni diverse laddove non vi è più la necessità di utilizzare le risorse per funzioni che vengono meno.
Questo provvedimento interviene dunque prevedendo alcuni principi. Innanzi tutto un principio di mobilità interna, la possibilità di essere ricollocati presso altre amministrazioni, una mobilità tra società partecipate tra le pubbliche amministrazioni, la possibilità di chiedere per il personale in esubero una qualifica inferiore, laddove la qualifica precedentemente rivestita non giustifica più la posizione.
Inoltre, nella prospettiva di valorizzare le risorse interne viene anche posto un freno all’attribuzione di incarichi di consulenza esterna, vietati quando a titolo oneroso e consentiti quando a titolo gratuito anche se solo per un anno. Ritengo che ciò incentiverà la pubblica amministrazione a ricercare al proprio interno nuove risorse e a valorizzare e a far crescere le proprie competenze interne.
C’è un tema particolarmente scabroso – se mi permette il termine signor Presidente – che riguarda la retribuzione dei dirigenti e dei funzionari. Su questo c’è stata, anche nei giorni e nelle settimane scorse, una grande polemica perché importanti centri studio hanno messo in evidenza come oggi la pubblica amministrazione sia caratterizzata sostanzialmente da una piramide con un vertice acuto, molto sottile, con retribuzioni altissime, soprattutto se paragonate a quelle dei propri colleghi di altri Paesi membri dell’Unione europea.
Per esempio, se facciamo riferimento ad un Paese come il Regno Unito che sicuramente gode di una amministrazione pubblica (flexible servants), si nota una differenza retributiva che appare assolutamente sproporzionata. Cito alcuni esempi. I ministeri della salute e dello sviluppo economico in Italia hanno, rispettivamente, 125 e 165 dirigenti di seconda fascia che guadagnano in media 110.000 euro, cioè quanto i 17 dirigenti di prima fascia del ministero dell’economia britannico; 300 dirigenti apicali di Regioni e Province guadagnano 150.000 euro, cioè quanto uno dei quattro direttori generali del ministero dell’economia e il capo di gabinetto del ministero degli esteri britannici.
Nel campo della carriera diplomatica lo stipendio medio è di quasi 200.000 euro per i quasi 900 diplomatici ed è assolutamente sproporzionato rispetto a quanto guadagnano i loro colleghi stranieri.
Non voglio fare una lunga lista di queste comparazioni, però è evidente che oggi abbiamo dei vertici che appaiono eccessivamente remunerati e spesso la remunerazione non è collegata al raggiungimento di risultati concreti e specifici né da parte del singolo funzionario, né nel complesso della pubblica amministrazione.
Così come oggi il ceto politico sta autoriformandosi, sta accettando una riduzione delle proprie attribuzioni, delle proprie funzioni ed anche delle proprie retribuzioni, credo che la riacquisizione di prestigio e la capacità di acquisire prestigio agli occhi dei nostri concittadini passino anche attraverso un gesto di maggiore solidarietà e di condivisione all’interno della pubblica amministrazione delle risorse economiche.
Per questo motivo, a nome del Gruppo Partito Democratico, annuncio il voto favorevole sul disegno di legge di conversione del decreto-legge in esame. (Applausi dal Gruppo PD).