Deserto

Deserto

 

Dedicato a Don Francesco Cassol

Questa memoria mi assilla: l’esercito di Cambise II, Re di Persia e Re dei Re, fu inviato nel deserto verso l’oasi di Siwa per distruggere il tempio di Ammon, dio del vento e del sole. Cambise, si dice, era ambizioso e aspirava ad essere egli stesso venerato come un dio. Il suo splendore non tollerava altro sole e un esercito di cinquantamila uomini partì da Tebe per oscurarlo.

Dicono che alcuni berberi li videro, lontani all’orizzonte, con le armi lucenti, le canzoni, i sogni e i carri pesanti. Il deserto li attraeva nel suo ventre come un magnete il metallo. Dicono che, ad un tratto, la loro marcia si fece più stanca, che il sole li prosciugasse e le energie a poco a poco li abbandonassero.

Poi si alzò la tempesta di sabbia e tutto si fece scuro. Il vento nascose loro la pista, l’orizzonte e persino il cielo. Invano agitarono le spade, invano scagliarono le lance, invano spronarono i cavalli.

Cinquantamila uomini scomparvero inghiottiti dal deserto e mai più alcuno seppe nulla di loro.

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Amo pensare che il Sahara li abbia preservati: nascoste, invisibili agli occhi dei mortali ancora palpitano le loro ciglia. I loro cuori pesano sul pianeta. Il deserto sembra vuoto ma un battito cardiaco (tum, tum…) si diffonde tra le dune, messaggio misterioso che chiama alla vita. Nella remota periferia della Metropoli tendo l’orecchio e ascolto il suo richiamo. Sforzo la vista oltre l’orizzonte precluso da parallelepipedi di cemento e sento, dolce e straziante, il desiderio delle grandi distese, del vento selvaggio, del silenzio profondo, di un luogo in cui urlare senza vergogna il mio bisogno di amore, di ridere e piangere, di ubriacarmi di sole e di stelle. Sento il battito che chiama, la pigrizia che insinua i suoi dubbi: partire; restare. Ogni viaggio, ogni avventura umana presuppone un conflitto interiore, una vertigine, una scelta faticosa, un cordone ombelicale da recidere.

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Con il mio zaino pesante e i miei sandali di vento mi incammino verso i grandi altopiani. Sono alla ricerca di ciò che resta ancora puro, incontaminato: il denaro non lo può comperare, il potere non lo può intimidire e neppure comprendere… Compagna di viaggio scelgo la povertà. Come si fidanza bene con il deserto la povertà! Povertà: sorgente di ricchezza. Povertà che reca a noi, uomini senza meriti, ceste di doni preziosi: la comprensione del valore intrinseco delle cose, degli sguardi, dei piccoli gesti gratuiti il cui splendore nessun tesoro del regno potrà mai eguagliare. Povertà nel deserto: essa ci dona la sete, la gola riarsa, la spossatezza delle membra. E poi la scoperta, quasi inattesa, del tintinnio dell’acqua che sgorga da una sorgente. Non c’è sinfonia al mondo, non c’è strumento musicale che possa eguagliare la felicità che dona il canto dell’acqua mentre scende per la gola stretta della mia borraccia. Povertà che ci regala il sentimento acuto della nostra finitezza: è bastato così poco perché le nostre certezze ci abbandonassero… la nostra presunzione, la nostra forza fisica, l’immagine sicura che abbiamo costruito di noi stessi. Come l’erba si piega sotto la falce anche il nostro orgoglio si inginocchia nella fatica. Credevo di essere tutto e invece sono appena poco più di niente. Eppure sono, sono, sono! Mai come ora ho avuto prepotente il sentimento di esistere. Nel deserto tutto ho perduto ma infine ho ritrovato qualcosa di me stesso.

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Il deserto ci svela la superfluità di ciò che ritenevamo necessario. Ci spoglia dell’inessenziale. Scava in noi un vuoto arido che non credevamo di poter tollerare. Poco a poco tutto l’Universo si ritrae. Il mondo diventa quella linea sull’orizzonte che si allontana, i sassi mal rotolati sul sentiero. Fiori secchi, memoria di una primavera ormai sciupata. Polvere, vento, ancora polvere. Il deserto è un Signore esigente: toglie senza promettere nulla in cambio. Fruga l’anima con i suoi artigli, impone rispetto, parla nel silenzio. Non c’è poesia nel deserto, non c’è romanzo. Solo pietre, sassi, lucertole e vento.

Perché il Buon Dio che tante cose belle ha creato ha voluto un luogo così spoglio e vuoto, un luogo che mostrasse non solo la nostra ma anche la Sua Povertà? Perché condurci a sperimentare la Sua Assenza? Come in alcune fasi della Storia vi sono luoghi dove Egli cela il Suo Volto. Uno di questi è il deserto. Possiamo cantare, gridare, imprecare, tirare sassi verso il cielo ma Egli rimane nascosto. Il Suo Creato è nascosto. Perché occultarci le Sue meraviglie? Perché questo spazio vuoto, questa mancanza di senso, questo silenzio della creazione?

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Ecco un paradosso: cerchiamo Dio proprio là dove Egli più si nasconde, cerchiamo la Sua Vicinanza dove più evidente è la Sua Lontananza. La Sua Forza dove è più chiara la Sua Debolezza. Cerchiamo la vita dove sembra passata la morte. Forse qui sta il mistero: per comprendere ciò che amiamo abbiamo bisogno di allontanarci, senza il vuoto non si intuisce il pieno, senza l’assenza non vi è alcuna mancanza. La nostra mente è ristretta: comprendiamo ancora solo poche cose di ciò che ci circonda: nella comunità scientifica si afferma che il 90% dell’Universo sia composto di materia oscura ma nulla sappiamo di essa. Più grande della nostra conoscenza è la Creazione, davvero imperscrutabile per le nostre povere vite il disegno del Signore dell’Universo. Cammino nella notte, piccolo essere insignificante che ha avuto il dono di poter contemplare le stelle: piccoli puntini bianchi nel cielo nero nascondono agglomerati di galassie dove forse la vita si trasforma in modo a noi sconosciuto. Il Cosmo come il deserto appare vuoto ma al tempo stesso nasconde in segreti anfratti la vita. E’ una speranza incerta, esile quella che si leva ma questa notte, rannicchiato su una pietra, su queste lande desolate ho sperato ardentemente che la vita sia più grande di quel che conosciamo e di poter udire anch’io il pulsare di una stella.

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Il fuoco attorno al quale abbiamo cantato ormai è quasi spento. Coricato nel mio sacco abbraccio il pianeta Terra che mi trasporta nell’orbita del sistema solare e delle costellazioni: la nostra galassia ha un nome bellissimo: Via Lattea. Quando morirò mi piacerebbe rivolgere a lei il mio ultimo sguardo. Penso ad un amico col quale ho camminato tanto sugli altopiani desertici e condiviso molto. O forse poco ma certamente l’essenziale: un po’ di cibo e l’amicizia. A lui è toccato di morire pochi mesi fa nel deserto, un colpo di fucile nel buio, un gemito. Sono convinto che abbia cercato con le sue ultime forze lo scintillio delle stelle che tanto amava. Tornare nel deserto assume oggi per me anche il significato di ripercorrere i passi di quella profonda amicizia e il desiderio di comprendere se sempre assurda sia la morte. Nella parabola di vita e di morte di Don Francesco Cassol ritrovo le domande che mi pongo da sempre: perché il Buon Dio ha accettato che venisse spezzata una vita così bella? Perché lui e non io? Perché la nostra vita è segnata dalla sofferenza? Domande che da migliaia di anni uomini e donne si pongono.

Mi inoltro sui sentieri invisibili del deserto per capire quanto la morte ci aiuti ad apprezzare e spendere meglio l’esistenza. Forse basterebbe una traccia, forse solo un battito di ciglia, il segno che il cuore del mondo palpita ancora sebbene nascosto.Che quel battito risvegli e liberi anche il nostro cuore arrugginito e indirizzi i nostri passi sulla strada della Vita.