Cyberbullismo
Contrasto al cyberbullismo: il mio intervento in discussione generale.
Vi propongo il video e di seguito il testo dell’intervento che ho fatto nella seduta antimeridiana dello scorso giovedì durante la discussione generale sul provvedimento in tema di contrasto al cyberbullismo. Questo pomeriggio procederemo con le dichiarazioni finali e il voto.
COCIANCICH (PD). Signor Presidente, vorrei formulare un ringraziamento non formale al relatore che, a mio giudizio, ha svolto un’introduzione appropriata, ricca di informazioni e importante, un ringraziamento da estendere anche a tutti i colleghi che, fino ad oggi, si sono espressi con considerazioni che io condivido ampiamente. Questo mi permette di fare alcune riflessioni – per non ripetere cose già dette – che forse sono di natura più generale, ma che credo siano comunque importanti.
In questo disegno di legge che oggi andiamo ad approvare è stata messa in evidenza la necessità di porre l’accento non sull’aspetto sanzionatorio-punitivo per affrontare il problema, ma sull’aspetto educativo. Io credo che educare e non punire sia la giusta strategia per fenomeni di questo tipo; ma per educare è anche necessario comprendere. Bisogna comprendere almeno tre aspetti: anzitutto, le dimensioni del fenomeno. Da questo punto di vista, molti elementi sono già stati evidenziati; io stesso vorrei attrarre l’attenzione dei colleghi anche sul dossier predisposto dagli uffici, che mette in evidenza dati davvero drammatici. Risulta, infatti, che più di uno su due giovani italiani, tra gli undici e i diciassette anni, è stato in qualche modo oggetto di comportamenti offensivi: stiamo parlando di una media nazionale di oltre il 52 per cento. Questo dà la sensazione di un fenomeno tanto grande quanto, per certi aspetti, sconosciuto.
Le dimensioni sono elevatissime e sono da rapportarsi alla crescita e alla diffusione degli strumenti tecnologici oggi disponibili: PC, tablet, cellulari, che evidentemente fino a pochi anni fa non c’erano, che oggi vengono utilizzati in un modo che non era forse facilmente prevedibile, ma che di fatto sono diventati strumenti di comportamenti di offesa e di aggressione reciproca.
Il disegno di legge all’esame mette in evidenza, all’articolo 1, quali sono questi comportamenti: atteggiamenti che inducono una o più vittime ad avere sentimenti di ansia, di timore, di isolamento, di emarginazione; comportamenti vessatori, pressioni o violenze fisiche e psicologiche; l’istigazione al suicidio o all’autolesionismo, minacce o ricatti; furti o danneggiamenti; offese o derisioni per ragioni di lingua, di etnia, di religione, di orientamento sessuale, per l’aspetto fisico, la disabilità o altre condizioni personali e sociali della vittima. È un elenco terrificante: è inquietante sapere che la metà della popolazione giovanile italiana si trova sistematicamente a contatto con comportamenti di questo genere.
Credo che non possiamo esimerci dal domandarci quale sia la società che stiamo, poco per volta, costruendo: quali saranno le donne e gli uomini del domani, se passano attraverso questa fornace di violenza, di intolleranza, di terribile aggressione reciproca? Del resto, è necessario comprendere che gli autori delle intimidazioni sono a loro volta, il più delle volte, dei minori: quindi, il fenomeno non è riconducibile alla visione dell’orco contro la giovane vittima. Spesso sono giovani che usano violenza nei confronti di altri giovani, minori che aggrediscono altri minori. Questo deve indurci a un terzo sforzo di comprensione, oltre a quello della dimensione e della natura di queste aggressioni: comprendere le ragioni di questa situazione.
Credo che, per quanto si possa stigmatizzare – ed è doveroso farlo – un utilizzo tanto violento della rete, un uso terribile di questi strumenti, dobbiamo rifuggire da un mero approccio moralistico che metta da una parte i buoni e dall’altra i cattivi, perché non è un approccio sufficiente e adeguato. In realtà, credo che le radici di questa situazione siano più profonde e trovino la propria linfa in una cultura della violenza profondamente diffusa nella nostra società, che viene oggi considerata in qualche modo normale.
A mio avviso, dovrebbe esserci una chiamata a un’assunzione di responsabilità collettiva e non si può soltanto imputare agli autori materiali di questi atti di intimidazione, di cyberbullismo, una responsabilità che gravi solo su di loro. In realtà, purtroppo, in parte è una responsabilità di tutti noi. Dovremmo avere l’onestà intellettuale di capire che tutti siamo compartecipi del problema e quindi dobbiamo essere compartecipi anche della soluzione. Se noi – e dico noi come politici, operatori culturali e dei media e attori dell’educazione – fossimo capaci di diventare operatori di una cultura diversa e di promuoverla, allora forse sarebbe possibile introdurre nella nostra società elementi correttivi e anticorpi nei quali poter trovare una via di salvezza.
Sono estremamente preoccupato, perché vedo che in questa vicenda si confrontano due, forse tre grandi fragilità. La prima è quella degli stessi componenti del branco: il cyberbullismo, infatti, si pratica in gruppo; non si ha semplicemente un individuo contro un altro, ma spesso un gruppo di persone che si accanisce contro il soggetto percepito come l’elemento più debole. A loro volta, però, tutti i membri del branco sono una sommatoria di fragilità, che si appoggiano l’una all’altra con atteggiamenti di violenza e di aggressività nei confronti di un altro, per riuscire a trovare una forza che in realtà è mancante. Quando si va poi a intervistare, interrogare e sentire i protagonisti di queste violenze, si scoprono fragilità individuali, immaturità e inconsapevolezze che sono altrettanto sbalorditive. Questo è un fenomeno di cui non possiamo non occuparci nel momento in cui parliamo del cyberbullismo, perché anche costoro – che non voglio definire vittime, parola che mi sembra inappropriata – sono parte della malattia di cui ci stiamo occupando.
Vi è poi l’aspetto della vittima che subisce queste aggressioni: mi colpisce molto il tema del silenzio, perché la vittima subisce in silenzio e, come abbiamo visto, non trova la forza di ribellarsi, se non con la ribellione estrema, di un atto di autolesionismo, che può arrivare addirittura al suicidio. Credo che questa sia la dimostrazione di un gesto estremo di rivolta nei confronti di un sistema che si pensa di non poter in alcun modo cambiare. Chi giunge alla conclusione che non c’è altra soluzione se non quella di togliersi la vita lo fa, credo, anche come un atto di accusa nei confronti non soltanto dei persecutori diretti, ma anche di quel mondo adulto che non è in grado di accorgersi di quel dramma né di intraprendere alcuna misura di sostegno o alcun tipo di aiuto, di ascolto, di promozione o di accoglienza nei confronti di chi sta vivendo una tragedia individuale, che viene vissuta personalmente senza essere manifestata, se non nelle lettere drammatiche e inquietanti che ci vengono lasciate.
Credo che il disegno di legge in esame abbia questo, di importante: offre una prospettiva, un safe harbour, un porto sicuro nel momento in cui mette a disposizione un percorso e un gruppo di riflessione; rinuncia alla prospettiva veramente sanzionatoria, come abbiamo detto, ma prospetta invece un lavoro di persone che si mettono insieme e prevedono una programmazione.
Sotto questo profilo, mi piace ricordare che pochissimi giorni fa anche la Regione Lombardia ha introdotto una nuova norma regionale, che individua nella relazione un punto, a mio avviso, importante: «Si deve intervenire attraverso una programmazione complessa e strutturata a lungo termine, che preveda necessariamente la partecipazione attiva della famiglia, della comunità scolastica e delle istituzioni del territorio, in una prospettiva di corresponsabilità, co-progettazione e condivisione dello sfondo valoriale».
Credo che sia questa la strada da intraprendere e che si debba fare appello certamente agli operatori della scuola, alle famiglie e anche alle associazioni, al mondo del volontariato e ai giovani stessi, che devono essere chiamati a diventare protagonisti di una società diversa, facendo appello alle loro migliori forze, energie e intelligenze.
Quindi, i giovani sono anche loro parte della soluzione e tutti noi non possiamo tirarci fuori dalla questione approvando questa legge perché non basta e dobbiamo cercare di mettere insieme, come ho accennato nel mio discorso, tutta una serie di elementi che creino una cultura diversa, dell’accettazione, del gusto della differenza e dell’accoglienza reciproca. Senza questo, temo che anche questa norma rischi di essere una soluzione estremamente parziale per quanto assolutamente necessaria. (Applausi dal Gruppo PD).