“Distinguere tra educare e informare non è soltanto falso, ma è decisamente disonesto.”

“Distinguere tra educare e informare non è soltanto falso, ma è decisamente disonesto.”

Il Senatore Sergio Zavoli nel suo appassionato intervento di questa mattina in Aula sulla riforma della RAI cita il grande filosofo liberale Karl Popper.

Di seguito vi propongo tutto il testo del suo intervento.

ZAVOLI (PD). Signora Presidente, cari colleghi e colleghe, è già stato detto tutto, in bene e in male, di una dura e responsabile prova affidata al Parlamento dal Governo della Repubblica. E toccandomi le ultime parole di questa prima rassegna dei pareri espressi dall’Aula, fondati sulla relazione iniziale del collega Ranucci (che ringrazio), il quale ci ha descritto il laborioso impegno della Commissione incaricata, non potrei certo avere la pretesa di ripercorrere la griglia variegata di un dibattito già largamente delineato.

Vi chiedo, perciò, di consentirmi una riflessione che si limiti ad un problema su cui l’Assemblea credo possa riconoscere un’esigenza comune: quella di rappresentare l’interesse più semplice e naturale non solo appunto di se stessa, cioè il rapporto più diretto e costante di un linguaggio che parla ogni giorno, ogni ora, ogni minuto all’opinione pubblica: l’informazione. Penso, per la dignità che compete a ciascuno di noi nell’esercizio responsabile del nostro lavoro, di potervi invitare a condividere lo scrupolo, non intellettuale né ideologico – non spaventatevi, io sono una persona molto più semplice – di trovarci di fronte ad una realtà di quelle che richiamano alla mente un artifizio filosofico secondo cui, “per la storia, tutti hanno ragione contemporaneamente”. È un paradosso, già sconfessato dal voto espresso sulle pregiudiziali poste su quanto, da oggi, ci immergerà nell’articolazione del disegno di legge. Anche se venire dopo Gasparri, dopo tanti anni, mi rimanda a tante diverse ma stimolanti temerarietà. Grazie comunque, Gasparri, dei tuoi ricordi. L’importante, diceva Flaiano, è esagerare.

Mi chiedo, per tornare alla premessa, quale destino staremmo vivendo se dovessimo affrontare la riforma con un’economia disastrata, a quali ulteriori e ancora più gravi sacrifici verremmo sottoposti, e chissà quanto ci costerebbe la perdurante marginalità del Paese. Non fatemi il torto di credere che da una parte voglia discreditare e dall’altra gratificare qualcuno, compiacendomi che l’Europa abbia dovuto riconoscere nell’Italia un Paese salvatosi dal disastro toccato alla Grecia grazie all’avere risposto, con la politica delle riforme, alle regole in base a cui siamo a pieno titolo anche cittadini europei.

Signora Presidente, cari colleghi, la divulgazione tende a sottolineare l’idea di dovere interpretare un grande e complesso interesse del Paese, facendo della coesione – una parola tra le più pronunciate dal presidente Napolitano – una scelta collettiva, non solo una predisposizione personale. Continuo a credere che le distanze vanno prese non solo dove si genera la lontananza, ma dove si garantisce il diritto alla diversità, rinnovando una lezione venuta da lontano, contro quella sindrome della incomunicabilità, che nella storia ha prodotto lasciti imperavi e laceranti. E qui un idealista senza illusioni – come credo d’essere – vi chiede di poter affrontare questa riforma, alla cui architettura in nessuna modalità ho partecipato, attenendomi alla materia che ha nutrito tre quarti della mia vita professionale, civile e politica. Sono grato ad Amartya Sen, premio Nobel per l’economia, il quale ha attribuito all’informazione il secondo dei massimo poteri espressi da questa inquieta contemporaneità, subito dopo quello della finanza. L’Italia, come tutti i Paese dell’Unione europea, muove dal presupposto secondo cui  dichiarava l studioso  il sistema informativo è quello che esprime la qualità oggettivamente più rappresentativa di una società moderna.

Torno subito alla premessa: la realtà mediatica, vissuta non solo in Occidente, fatta salva ogni approssimazione, sta oggi affrontando una temperie suscitata agli esordi del secolo. Siamo proprio certi che l’11 settembre 2001 non fosse l’incipit terrificante di quanto sta accadendo? Ma occorreva una quindicina d’anni per avere la consapevolezza di ciò che andava maturando? Perché il 70 per cento del Paese ancora oggi non saprebbe dire che cosa ha generato la crisi o perché è nata in America? Perché sa poco del suo attuale andamento? Perché la finanza e le banche sono ancora al centro di un’enorme questione di gravi e perduranti responsabilità? Abbiamo afferrato i motivi della crisi greca e le ragioni della severità, a volte insopportabile, di una parte dell’Unione? Ci siamo fatto un’idea ragionevole del disastro etico, morale, civile e politico sollevato dalla tragedia dei migranti? Perché rimane così viva, accanto a prove di straordinaria comunanza, la caduta del solidarismo e della pietà? Perché è a tal punto declinato il criterio della fiducia e si è assopito il sentimento della speranza? Crediamo oggi di interpretare correttamente i progetti del fondamentalismo, nei ruoli che è venuto assumendo? Abbiamo capito quali principi chiama in causa la tempesta religiosa, estremizzata fino alle forme assunte dal più barbaro fanatismo? Dove può arrivare il fenomeno distruttivo di valori millenari, quando si decapitano anche le statue, perché testimoniano una bellezza originata dalle civiltà degli infedeli? Perché l’80 per cento dei lettori e degli spettatori non conosce, non ricorda, né saprebbe collocare i nomi di chi rappresenta porzioni di Paesi, di popoli, di religioni e di culture, nei vasti e molteplici luoghi in cui si manifestano indicibili violenze? Cosa coglie nelle parole degli editoriali solleciti e colti il pubblico non avvezzo ai linguaggi difficili? Tutto questo non potrebbe essere il segno di una qualche crisi del mio mestiere, considerando la progressiva distanza di un’opinione pubblica sempre più incline a disertare la politica fino all’inerte, mortificante rifiuto di votare? E via così, tra il credere di sapere e il dubitare, l’assolvere e l’indignarsi. Scontata la difficoltà di avere un’informazione migliore della società che la esprime, mentre da un lato occorre garantire al sistema mediatico il rispetto delle norme che tutelano le sue libertà – anziché minacciarle, e persino ridurne i valori costituzionali – ha governato per tanto tempo una mentalità impigrita da contesti disamorati o estremizzati, determinando stereotipi sociali di comportamento, l’adeguarsi al modello più corrivo, lo sfiancarsi dei partiti e il demagogico lucrare del populismo sulle loro debolezze.

Molto è ritornato nel frattempo alle interpretazioni personali, divenute via via più fungibili e opportunistiche, mentre la libertà di espressione postula le distinzioni proprio a salvaguardia dei diritti di un pluralismo reale, che non sia, cioè, la somma di tante faziosità.

Una politica che non mantenga vivo e operante il proprio dibattito interno, se lascia, per esempio, svilire i ruoli della maggioranza e della minoranza, cioè la più naturale dialettica democratica, mette a rischio una risorsa comune, ma una comunicazione che non sapesse più distinguere tra l’opportunismo e una protesta fondata su legittime istanze teoriche, quotidiane, anch’essa rischia di creare un grave indebolimento della democrazia, ammoniva De Tocqueville, uno che se ne intendeva.

Come reagire, se una sorta di accademico, quasi bigotto laicismo vieta alle TV del servizio pubblico di assumersi un compito civilmente pedagogico con il pretesto di dover tenere ontologicamente separate l’informazione e l’educazione?

Ho qui sotto gli occhi queste parole di Karl Popper, il grande filosofo liberale, tratte da una forte intervista di Maria Teresa De Vito: distinguere tra educare e informare non è soltanto falso, ma è decisamente disonesto. La mia opinione muove dal presupposto che non ci può essere informazione che non esprima una certa tendenza, e ciò si vede già nella scelta dei contenuti quando si deve scegliere su che cosa la gente dovrà essere informata. I professionisti della televisione hanno la grande responsabilità di non sottrarsi all’obbligo di educare.

Ecco il punto: la riforma chieda di educare l’opinione pubblica alla riflessione, al confronto e al giudizio, in base all’esigenza non certo di tutelare unanimismi, ma la responsabilità e le scelte.

Le cronache drammatiche della politica europea sulla questione greca ci avvertono che non ci si salva più uno alla volta, men che meno dovendo accettare una sconfitta con l’idea che dovrà pagarla la parte più debole del popolo.

In nessun secolo – si è detto – un’informazione che esprimesse la complessità era stata così minacciata nel suo scopo naturale, mentre un nuovo allarme lasciava intendere che parlare e ingannare spesso diventano sinonimi.

Va incentivata la convinzione che un conto è informare e un altro è comunicare: nel primo caso passano delle notizie, nel secondo restano dei contenuti. Ne deriva che se se ti parlo per ciò stesso ti cambio, e non si esce mai del tutto indenne da un confronto del genere, a patto che esso implichi il darsi lealmente la parola su ciò che interessa entrambi, cioè su quanto dover trarre dalla concitazione del vivere d’oggi, compresa questa riforma cui chiediamo di contribuire a sgominare la crescente e vergognosa indistinzione elettronica tra numeri e persone.

Mi auguro che la naturale ricerca del bene di vivere bene lasci altrettanto credito e spazio alle categorie dell’etica: una parola severa, non edificante, svilita da una risonanza virtuosa che la rende retorica e strumentale, spesso nella persuasione che tutto quanto è possibile e nello stesso tempo anche lecito, senza farsi abbagliare dalla sintesi perentoria secondo cui il razionale è reale o viceversa, solo il razionale è reale o viceversa.

Sarà bene sapere e naturalmente credere che informazione e politica non sono oro colato, ma non c’è mai stato tanto bisogno dell’una e dell’altra come quando esse stesse sembrano autorizzarci a voltar loro le spalle. Ciò per scongiurare la tragica ipotesi, questa sì, che sopravviva una sola realtà e un pensiero soltanto.

Primum informare, precisò Luigi Einaudi, inaugurando con la Repubblica il nostro «Heri dicebamus». E la BBC continua a sussurrare agli articoli della nostra riforma le sue tre intramontabili parole: informare, educare, intrattenere.

La RAI – è risaputo – ha svolto per molti decenni una missione civile di enorme rilevanza nella lotta all’analfabetismo, nell’unificazione della lingua parlata, nell’acculturazione di grandi masse, nella formazione della classe media, nel rafforzare il senso dell’identità nazionale. In altre parole, ha contribuito a formare una nuova sfera dell’opinione pubblica, allora ristretta e riservata ai ceti più colti. Tuttavia la condizione di arretratezza scolare e culturale permane drammatica: oltre 15 milioni di cittadini hanno soltanto la licenza elementare e sono dunque nell’impossibilità di assimilare un apprendimento non elementare; l’88 per cento della popolazione ha il proprio riferimento nella comunicazione radiotelevisiva. La nostra dieta televisiva è di oltre quattro ore al giorno, per chi sa fare questi conti appena 10 minuti ci dividono dagli Stati Uniti. Siamo al settantatreesimo posto nella classifica mondiale della libertà di informazione; solo il 7 per cento sono i lettori abituali di libri e i luoghi tradizionale di acculturazione – teatri, musei, cinematografi, sale da concerto e biblioteche – anche se per la verità il comparto culturale ha ricevuto da appena un anno un significativo rilancio, sono ancora complessivamente residuali. Dei 27 Paesi dell’Unione europea le famiglie italiane sono al ventiduesimo posto per l’accesso a Internet e quattro cittadini su dieci non hanno mai avuto per le mani un computer.

Questi dati devono poter aggiungere ai confronti cui siamo chiamati quel tratto di rigore indispensabile quando una riforma assume decisioni che possono favorire la crescita culturale e la capacità di giudizio di milioni di cittadini, sapendo che se la RAI, invece di essere rifondata, ne uscisse ridotta nelle sue prospettive di promozione culturale, in un paio di generazione l’Italia perderebbe progressivamente la memoria storica del suo passato. Tutti, allora, saremmo più deboli nell’informare e nell’essere informati, nel sapere di più del mondo che ci circonda, delle realtà sociali con i loro protagonisti e le loro comparse e degli strumenti per entrare nel proprio futuro.

Questa riforma è tra le più difficili e moderne perché interessata al multiforme e aggiornato scenario di un mondo che si dispiega davanti a noi indicando la nuova pluralità del reale. In più, la riforma è urgente perché si colloca in una dimensione che esige, nello stesso tempo, la difesa dell’identità nazionale nella prospettiva di un’Europa indotta a riconsiderare, dopo il caso Grecia, esigenze e decisioni nuove.

Ciò implica che una rappresentazione del mondo offerta con l’attuale, teorica garanzia di fedeltà alla nostra storia, rischia di rimanere un’esperienza vicaria della realtà proprio perché la si vive attraverso le tante, più o meno esplicite intromissioni di quell’ordito politicante che permea gli ambiti e i ruoli delegati a rappresentare la trasparenza, cioè il teleschermo.

Che avesse ragione Nietzsche quando diceva: «Non esistono i fatti, ma solo interpretazioni»? Su questo tema Aldo Grasso potrebbe intrattenerci con argomenti complessi, per esempio affrontando gli inderogabili ruoli della tecnologia e del mercato, al di là di opportunismi e infatuazioni impressi nelle tradizioni, e ovviamente negli interessi, aziendali. Ai quali sono legati i palinsesti, con il pericolo di trasformare una modalità arricchente dell’informazione, come per esempio il talk show originario, a suo modo esplicativo e invogliante, che nella malintesa rivalità di alcuni epigoni ha visto via via primeggiare i personaggi inclini più allo scontro che al confronto, in cui le modalità e i toni populistici hanno alzato i decibel facendo scendere la discussione sul terreno di una vociante supremazia verbale. È il risultato della scelta di chi ha trasformato un moderatore – qui la RAI per la verità non c’entra – in un antagonista più autorevole e temerario dei suoi invitati, per dare al dibattito una tonalità più urticante. Tanto che, fatti salvi i residui, rispettabili talk show inaugurati da Santoro, oggi Aldo Grasso riassume il fenomeno scrivendo che «finita la loro forza propulsiva, oggi i talk show sono noia, narcisismo, pollaio».

Credo che per amor di patria abbia sorvolato sull’ormai convenuta, pacifica distribuzione dei personaggi che suscitano il maggior ascolto, consentendo a ciascuno di loro di superare le presenze anche del Presidente del Consiglio, e finendo per indirizzare sugli abili, suggestivi appiccatori d’incendi, per dir così, folate di consensi e di voti.

Altrettanto accade con quell’intrattenimento che, per autenticare la sua serietà, ha spesso in cartellone problemi di cronaca per lo più nera, in nome di uno spettacolo che susciti una sorta di dolente successo del “dolorificio”. Si tratta, qui, di intenzioni spesso generose, persino nobili, ma la bulimia dei contenitori rischia di aumentare le dismisure richieste non solo dalla spettacolarizzazione, ma anche dall’antico e ripudiato indice di gradimento, finito in un dismesso magazzino di via Teulada. Senza dire dei programmi cosiddetti popolari, che non hanno mai visto, ad esempio, il volteggiare di cuochi e di padelle come in tempo di crisi.

Ciò che spesso deforma la funzione dell’intrattenere è il compendio di quel male di vivere che alimenta tanta parte delle TV generaliste. Ed è un problema non psicologico, né interiore, né del “bene di viver bene”: è una questione di mera doverosità teleguidata, senza implicazioni morali, che non ha certo bisogno di enfatizzazioni. Semmai, direbbe un geometra, di altre misure.

Psicologi e pedagogisti hanno rivelato come la cosiddetta energia volitiva dei giovani stia facendosi sempre più debole; ciò accade da quando, con il massimo di imprevidenza, sono stati lentamente spossessati delle prime logiche dell’apprendimento, cioè dell’analisi, del giudizio e della scelta, facendone una realtà ininfluente dal punto di vista sociale e vincendo, su tutto, la realtà che appare, cioè la sua rappresentazione. Un’altra riforma, quella della scuola, potrà far molto in questo senso.

È ciò che fece clamorosa la rivoluzione culturale prodotta dalla TV. Quanto ad oggi, andrà evitato il rischio di promuovere una mitologia diversa, quella di credere che la rivoluzione tecnologica sia il sinonimo di una rivoluzione dei rapporti sociali, considerando che la comunicazione è, dopotutto, una pratica sociale.

Ma un universo ideale, costituito da miliardi di persone in grado, grazie alla TV, di conoscersi, di capirsi e di fraternizzare, è una visione consolatoria, persino conservatrice, dei problemi del mondo. «Il mio modo di vivere e di parlare, di immaginare e di volere è ormai, in un modo indicibile, condizionato dalla TV», scriveva con desolato realismo Saul Bellow, e si pensò ai più fragili di fronte a quella solitaria e disarmata ammissione. Era ormai innegabile che i bambini, socializzati dal teleschermo assai più che dalla scuola e persino dalla famiglia, affidassero gran parte della loro immaginazione alle traduzioni televisive del reale, ed ebbe quindi qualche riconoscimento l’idea che pensassero, desiderassero, giocassero tutti allo stesso modo.

Neil Postman, in un libro dedicato a questo fenomeno, si è spinto a dire che, con l’avvento della TV, la dimensione tradizionale dell’infanzia era finita. Restava vero, comunque, che la televisione, per tanti versi straordinariamente preziosa, amava abolire le mediazioni fantastiche, saltare le ipotesi, anticipare i giudizi, insomma offrire tutto, e subito, a tutti. Ma rimaneva una ricchezza irrevocabile: «L’immaginazione è il modo più alto di pensare», dicevano i creativi, relegati nelle loro straordinarie ricchezze. Guai, d’altronde, se tutto il nostro vivere e pensare, patire e gioire, si riducesse a un vago, inestinguibile aneddoto su noi e la nostra vita: così rispondevano i realisti, per i quali la società dei nuovi bisogni andava difesa dal pericolo di essere dominata, o anche solo influenzata, da astratti teoremi mentali o addirittura dalla coscienza.

Si fece vivo Elias Canetti, l’autore di «Massa e potere», chiedendo «quanto tempo ci sarebbe rimasto per vedere il peggio», cioè il vero pericolo, il più insidioso, trasformato nella sua mancata percezione. Ecco, anche qui, la necessità di una riforma che aiuti a credere, poi a vivere, qualcosa di sempre più logico e quindi più umano, anche se fondamentale più complesso.

Una riforma che voglia tendere a questa restituzione ha già in sé la premessa di doversi misurare con la sua più ragionevole fattibilità. Occorre cioè lavorare affinché la quantità sempre più coinvolgente di dati e di immagini acquisiti dai nuovi archivi tecnologici, ma anche dal recondito umanesimo della memoria, non finisca per alimentare un processo di estraneazione dalla realtà in tanti microcosmi sociali e politici che indeboliscono il presente e attardano il futuro. È un problema generazionale, non di una panacea virtuosa, pronta a offrire da subito i suoi frutti.

Ma occorre dare alla TV un ruolo fondamentale nel concorrere – insieme con altri soggetti, e integrandosi con essi – alla difesa dell’identità culturale e civile di un Paese. Alla sua centralità necessita un punto di equilibrio e di garanzia rispetto ai rischi che un sistema comunicativo solo tecnocratico potrebbe provocare.

Ho conosciuto altre riforme e credo di sapere come occorra prepararsi a innovare con coraggio, predisponendo nuovi scenari e altrettante uscite di sicurezza. So di parlare, non perché sospinto dai sentimenti, di un corpo professionale giudicato tra i migliori d’Europa, e aggiungerei del mondo, e ciò postula progetti integrati di crescita civile e culturale ai quali dovrà far capo una pronta ed efficace iniziativa politica.

E chi ha la responsabilità diretta di un servizio pubblico radio-televisivo deve a sua volta governare una pluralità di opinioni e di interessi che rappresenti un dato partecipe e responsabile dello scenario nazionale e internazionale. È un compito di fiduciosa, difficile, continua ricognizione nella realtà di un Paese che opera per la soluzione di problemi non soltanto suoi – ma anche di altre forze ideali e concrete – da affrontare e risolvere all’interno di una dimensione, quantomeno, continentale.

Azzardo a chiedere – trattandosi di una ipotesi che dopotutto ha un nesso concreto, e cruciale, con l’informazione – se non sia materia per una riflessione il problema di dare alle testate giornalistiche, cioè ai soggetti che nella loro ricca e complessa articolazione rappresentano un vero e proprio sistema informativo, fatto di compiti, competenze e linguaggi diversi (qui mi rivolgo al sottosegretario Giacomelli), una sorta di direzione editoriale – o di vice direzione editoriale – che si aggiunga a quelle già previste per completare la centralità della funzione primaria attribuita all’amministratore delegato, inserendo tra i comparti fondamentali dell’Azienda, insieme con la produzione, l’amministrazione e la finanza, anche l’informazione, che ci trasforma in un numero indicibile di invisibili “Dedalus”, l’eroe di Joyce: uno share che nessun algoritmo è in grado di consegnare ai nostri umanissimi orgogli.

Occorre credere, cioè, che avremmo ancora una cosa da dire anche quando ci sembrasse di non avere più nulla da esprimere. Perciò si dovrà continuare a pensare e a fare. Sarà la convinzione nel nostro compito a tenere in vita una ineludibile comunanza, perché al di fuori di essa, alla fine, contro noi stessi troveremmo sempre e soltanto noi stessi. (Applausi dai Gruppi PD, FI-PdL XVII, AP (NCD-UDC), Aut (SVP, UV, PATT, UPT)-PSI-MAIE e LN-Aut e dei senatori Bocchino, Romani maurizio, Bencini e De Pietro. Molte congratulazioni).

Qui il testo del provvedimento riforma della RAI e del servizio pubblico radiotelevisivo.