Non maledire questo nostro tempo
Lettera di mio figlio Pietro:
“Mia piccolissima riflessione sulla Resistenza, che se tu leggessi mi farebbe piacere. Il titolo già spiega tutto.
25 APRILE
Non mi è molto facile parlare con serenità della Resistenza.
Un tempo, certo, mi era più semplice farlo. L’istruzione elementare non ti dà poi adito a tanti dubbi, tanto per intenderci, così come la vulgata popolare. Era tutto abbastanza chiaro: da una parte c’erano i tedeschi cattivi e dall’altra i partigiani buoni (tendenzialmente comunisti). In un’epoca in cui nutrivo sentimenti fortemente antiamericani e vagamente filo-comunisti (per quello che potevo capire io, da ragazzino supponente di 12 anni) ciò bastava e avanzava. Ma già negli anni delle medie (quegli orrendi e tristi anni) il seme del dubbio era entrato nel mio cuore, e la serenità e linearità di giudizio era stata compromessa.
Cos’era successo? Semplicemente, avevo capito appieno cosa voleva dire chiamarsi “Cociancich”. Pian piano appresi e capii cos’era avvenuto nella terra di mio nonno, di suo padre e di suo nonno, delle tragedie del genocidio e dell’esodo, degli autori di quei crimini e di chi in Italia li aveva coperti e (forse) sostenuti in nome dell’Avvento del Socialismo. Quando mi resi conto che il genocidio di Italiani era stato volutamente coperto e fatto dimenticare per non offuscare l’immagine della Resistenza, quando capii che a massacrare e infoibare erano stati dei partigiani, quando seppi che ancora oggigiorno c’è chi nega e chi giustifica ammantandosi di antifascismo… allora la Resistenza mi apparve sotto una luce più sinistra, più falsa. Sicuramente non mi sono mai più considerato nemmeno lontanamente filocomunista. Ancora oggi, le responsabilità antiche e il negazionismo/giustificazionismo odierno m’impediscono di avere un rapporto sereno con la sinistra italiana (a ciò si è aggiunta, col tempo, una mia netta condanna del comunismo per ragioni anche filosofiche e soprattutto religiose).
La storia della mia famiglia, la vita di mio nonno e dei suoi parenti è stata sconvolta e stravolta dalla Resistenza, e per giunta incolpevolmente. Questo è un dato di fatto. Ma se consideriamo trascurabile la singola vicenda della mia famiglia, non può esserlo quella di altre 350.000 persone scappate da un’odiosa tirannide comunista nata dalla Resistenza, né quella di 17.000 persone uccise nei modi più crudeli e fantasiosi. È una macchia nera, e per giunta è indelebile.
Il discorso si può poi estendere alle tante persone uccise (non sempre con fondati motivi) nelle sommarie rese dei conti nei mesi e nei primi anni dopo la fine della guerra. Normale (ahimè) e inevitabile strascico di una guerra civile? Certamente, ma si tenga conto che la retorica resistenziale considera ingiusto il termine “guerra civile”, perché quella “fu una guerra di liberazione”. E d’altro canto, il normale strascico d’una guerra civile non giustifica il massacro da parte delle bande comuniste d’altre formazioni partigiane, come la strage di Porzûs ai danni della brigata Osoppo. In un recente libro di Emanuele Luzzatto, si racconta come nella piccola formazione cui prese parte Primo Levi poco prima di essere catturato e internato nei lager, vennero giustiziati due membri della banda, per poi essere fatti passare come vittime del fascismo. Va detto che quest’ultimo libro è stato accolto da un gran numero di critiche, che insistono soprattutto sul concetto “che senso ha rivangare queste storie?”. Come dire: sono cose che sappiamo già, quindi non dirle in giro.
D’altronde, citare eventi oscuri e ambigui nella vicenda resistenziale viene visto con antipatia dall’ANPI, che non ama molto il “revisionismo storico”.
Ci è poi voluto del tempo per realizzare che, alla fine dei conti, i partigiani avevano liberato proprio poco. La maggior parte del lavoro lo fecero gli Alleati. Qualsiasi libro di storia militare della Seconda Guerra Mondiale lo dimostra ampiamente, e tratta l’esperienza partigiana in pochissime righe. È risaputo che l’unico paese che riuscì a liberarsi pressoché integralmente per merito della lotta partigiana fu, ahinoi, la Jugoslavia. E in Italia non ci fu mai una figura pari a Charles de Gaulle, che condusse la Resistenza in Patria seduto quasi come un pari tra gli Alleati.
In definitiva, non mi è facile parlare con serenità della Resistenza. Il fatto che poi le celebrazioni del 25 aprile siano in generale vissute come una “festa dei comunisti” non aiuta più di tanto. Alla manifestazioni di ieri, tra le varie cose, ho visto ritratti di Stalin, bandiere della Corea del Nord, un tizio vestito da soldato sovietico sventolante la bandiera rossa… la cosa che mi consola è che tutti i potenziali elettori comunisti d’Italia erano racchiusi lì in quella piazza, e che non ce n’erano altri in giro.
Tutto ciò però non riesce (ed è sempre questo mio oscillare da una parte all’altra a essere faticoso) a farmi avere una condanna storica per la Resistenza.
Diciamoci la verità: nel 1940 l’Italia entrò in una guerra che non poteva vincere, e che infatti perse con ignominia. Estese un conflitto già grave e lo portò nei Balcani e in Africa. Aerei italiani volarono sopra Londra, soldati italiani percorsero le steppe russe. Nonostante gli indiscutibili atti di valore (il sacrificio della Folgore, la carica di Izbušenskij, l’eroismo degli Alpini, la resistenza sull’Amba Alagi, l’immenso Amedeo Guillet, di cui consiglio di conoscere le gesta) subimmo rovesci su ogni fronte. Quel ch’è peggio, combattevamo in una guerra sbagliata, e dalla parte sbagliata. Certe persone sembrano dimenticarselo, ma stavamo dalla parte della Germania di Hitler. E la Germania nazista di Hitler aveva come modello primigenio l’Italia fascista di Mussolini.
Il Fascismo (anche se è impossibile che abbia fatto solo cose cattive) fu un regime violento e prepotente, forte con i deboli e debole con i forti. Utilizzò sistematicamente la violenza come tattica politica, assassinò o internò i dissidenti, cancellò la libertà di stampa e di opinione, bandì praticamente tutte le organizzazioni che non potevano essere controllate, attuò miopi e ottuse misure di centralismo linguistico e culturale, condusse guerre di sopraffazione in Europa e Africa. Poi si alleò con la Germania, di cui divenne succube servo: testimone ne è la promulgazione delle leggi razziali. Questo andazzo proseguì con la Repubblica Sociale Italiana, i cui soldati (quelli chiamati “i ragazzi di Salò”, per darne un’immagine edulcorata; come chiamare le SS “i ragazzi di Norimberga”) venivano usati più che altro come polizia militare, per rastrellare gli ebrei da mandare nei lager e per combattere i partigiani.
Ebbene, di fronte a un quadro italiano così desolante, la Resistenza ha un altissimo valore.
Ci mostra che non tutti gli Italiani furono complici di quell’orrore. Che l’Italia non era solo una patria di servili opportunisti, di crudeli vigliacchi, di stupidi fanfaroni (i begli esempi datici dai gerarchi fascisti – anche quelli che sfiduciarono Mussolini – e dalla monarchia). Chi combatté il fascismo soffrendo e patendo (nell’inverno 1944-1945, per esempio) lo fece perché sperava nel suo cuore di far nascere un’Italia più giusta e più bella, più fresca e libera. Certo, molti si prospettavano l’agghiacciante idea di portare il Comunismo, ma non fu per tutti così. Sappiamo anche che molti dei valori che animarono i resistenti contribuirono (al di là della retorica) alla stesura della Costituzione, che probabilmente non è la “più bella del mondo” (io non sono uno di quelli che la adora in modo mistico e religioso) ma fa comunque la sua porca figura.
Quando penso alla Resistenza mi vengono in mente anche altri esempi: la divisione Acqui di Cefalonia, che non volle unirsi ai tedeschi e fu per questo annientata; il mio bisnonno Giovanni Ballone, socialista, che non volle prendere la tessera del fascio e non iscrisse mia nonna alle Piccole Italiane, portandola a essere discriminata a scuola; il mio bisnonno Egidio Nicoletti, democristiano milanese tutto d’un pezzo, che ogni tanto veniva portato alla Casa del Fascio per passare qualche notte in cella; le Aquile Randagie, gruppo di ragazzini milanesi e monzesi che dal 1928 (millenovecentoventotto, non so se mi spiego) continuarono a fare gli scout clandestinamente, rischiando la galera e le botte, e riuscendo addirittura a mandare alcuni dei loro ai grandi raduni internazionali del 1933 e del 1938.
Non mi è facile parlare con serenità della Resistenza. Ma sono cosciente che ha riscattato l’Italia da un ventennio ignobile e vergognoso, con il quale molti di noi non sono ancora riusciti a venire ai patti. Io condanno fortemente le storture e le ambiguità che la Resistenza si è portata dietro nei decenni (così come le persone che le ignorano volutamente o financo le sostengono), ma non posso e non voglio condannare un’esperienza così nobile e alta. Se oggi ci possiamo permettere di vaneggiare che “siamo ancora sotto un regime” o di scrivere banalità come quelle di queste righe, lo dobbiamo anche al sacrificio di quei giovani che 70 anni fa prendevano la via delle montagne, sperando di poter costruire un’Italia migliore di quella in cui avevano vissuto sino a quel giorno.
Non maledire questo nostro tempo,
non invidiare chi nascerà domani
chi potrà vivere in un mondo felice
senza sporcarsi l’anima e le mani.
Noi siam vissuti come abbiam potuto
Nei giorni bui senza libertà.
Siamo passati tra le forche ed i cannoni
Chiudendo gli occhi e il cuore alla pietà.
Ma anche dopo il più freddo degl’inverni
Ritorna sempre la calda primavera,
la nuova vita che comincia stamattina
in queste mani sporche ha una bandiera.
Non siamo più né carne da cannone
Né voci vuote che gridano di sì;
a chi è caduto per la strada noi giuriamo:
pei loro figli non sarà così!
Vogliamo un mondo fatto per la gente
Dove ciascuno possa dire “è mio”,
dove sia bello lavorare e far l’amore,
dove il morire sia volontà di Dio.
Vogliamo un mondo senza patrie in armi,
senza confini tracciati coi coltelli;
l’uomo ha due patrie: una è la sua casa,
l’altro è il mondo, e tutti siam fratelli.
Vogliamo un mondo senza ingiusti sprechi
Quando c’è ancora chi di fame muore.
Vogliamo un mondo in cui chi ruba va in galera
Anche se ruba in nome del Signore.
Milano, 26 aprile 2013