Avventura destinazione uomo
Sul grande tavolo della biblioteca stanno disordinate le mappe che ho febbrilmente consultato. Il mio cuore invoca l’avventura. Qui sta la bussola, più in là giace il goniometro. Cerco il Nord, la direzione. Un antico lunario mi dice la posizione delle stelle. L’atlante mi racconta di fiumi e montagne, di strade che inesorabilmente conducono alle città. Osservo le linee di livello, i segni topografici che alludono a boschi, a dirupi, sorgenti d’acqua, ferrovie. Conosco bene queste carte: chiudendo gli occhi posso raffigurarmi i paesaggi che esse descrivono in modo così preciso che non saranno una sorpresa per me quando vedrò direttamente quei luoghi. Le mappe, gli atlanti, le bussole e oggi anche il GPS, possono descrivere anticipatamente il viaggio, il suo percorso, il suo punto di partenza e quello d’arrivo. In apparenza tutto quel che c’è da sapere: i tempi, le distanze, lo stato dei luoghi, l’altitudine, la pendenza del sentiero. In pratica: tutto quel che riguarda il come. Eppure quegli strumenti, per quanto abilmente li si possa usare, per quanto profondamente li si possa scrutare, sono incapaci di svelare le informazioni più importanti sul viaggio che intendo intraprendere. Essi sono incapaci di svelare l’essenziale della mia avventura, la sua vera destinazione, in altre parole il suo perché.
La scienza cartografica consente nuove scoperte geografiche. Ma il vero mistero rimane l’uomo. Speciali batiscafi ci consentono di scendere negli abissi marini sino al fondo della Fossa delle Marianne, il punto più profondo del Pianeta Terra. Grandi alpinisti hanno scalato le vette dell’Himalaya, della Cordigliera, delle Montagne Rocciose. Eppure gli abissi dell’anima umana sono più profondi dei mari, i pensieri della mente più scuri della notte e le vette dello spirito più alte delle Grandi Cime. Mi domando: quali segreti andiamo cercando? Dopo aver fatto sette volte il giro della Terra quale verità ci rimane nascosta? Dove sta il tesoro del campo?
Ben poco ci servirà l’avere esplorato andando per boschi, per monti e pianure se il nostro viaggio non ci porta ad incontrare l’uomo. Quella è la prima meta. Solo nell’incontro, nella scoperta, nella condivisione con gli altri uomini, nel riconoscimento delle nostra diversità e, al tempo stesso, della irrimediabile somiglianza con chi ci appare straniero, sta il segreto del viaggio, il motivo autentico del nostro partire, la destinazione ultima del nostro cammino.
Certo, noi incontriamo uomini tutti i giorni, li sfioriamo, parliamo con loro, negoziamo e contrattiamo. Possiamo anche minacciarli, blandirli, sedurli, comperarli ma è molto probabile che essi rimangano, per quanto stretto possa essere il laccio col quale li vogliamo stringere a noi, remote solitudini del tutto inaccessibili. Il mistero dell’uomo non si svela nella sua sezione anatomica, nello studio minuzioso delle sue cellule, nell’osservazione dei suoi movimenti nella stanza. Un guardiano potrà spiare per anni il prigioniero nella sua cella di quattro metri per quattro senza riuscire ad avvicinarlo di un solo centimetro. Non basta essere vicini per essere meno stranieri. Non basta possedere per conoscere. Non basta viaggiare per apprendere. Non basta incamminarsi verso la città degli uomini per raggiungerla.
Ma tu, caro lettore, che condividi con me il gusto, la voglia, il bisogno di una vita che abbia il sapore di una avventura autentica, il desiderio di un viaggio che non sia fine a se stesso, il bisogno profondo di dare ai giorni che scorrono un senso compiuto, tu che come me sai che non esiste la felicità da soli, che l’isola del tesoro non si trova nel mare, che non c’è acqua che disseti se non è condivisa, tu lo sai. Tu sai come. Tu sai che per raggiungere gli uomini non c’è che servirli. Il vero viaggio, la vera avventura hanno questo nome: servizio. Tu sai che sarà un viaggio lungo, faticoso, scomodo. Meglio viaggiare leggeri, lasciando a casa tutto ciò che ci zavorra: le nostre certezze pronte a trasformarsi in pregiudizi, i nostri desideri di possedere che ci fanno sentire sicuri per ciò che abbiamo anziché ciò che siamo, il nostro senso di superiorità che ci impedisce di apprezzare la semplice bellezza degli altri.
Servire gli altri significa innanzitutto accoglierli, far comprendere loro che sono ospiti preziosi, così come sono, ricchi o poveri, mendicanti o sapienti. Significa rendersi intimamente disponibile ad aprire quella porta di casa che è la più remota e spesso la più chiusa: la porta del cuore. Difficile se non impossibile raggiungere l’animo altrui se non si accetta di mettersi a propria volta in gioco, di lasciarsi raggiungere anche in quelle regioni dell’anima che nascondiamo con cura, siano esse un giardino oppure un deserto.
L’avventura del servizio richiede una bussola e alcuni punti cardinali: capacità di ascolto, umiltà, il coraggio della curiosità e delle cose nuove, non giudicare. Muoversi su questi sentieri non è facile né agevole. Ancora una volta scopriamo che per quanto gli altri possano sembrarci difficili il vero ostacolo è in noi. Eppure questo ci guida:la convinzione che l’uomo non è fatto per stare da solo: nella lotta, nel conflitto, nella riconciliazione, nel perdono smarrisce e ritrova se stesso. Possiamo quindi declinare la parola servizio nei suoi aspetti sociali, politici, culturali, sottolinearne le radici e le differenze con il volontariato, il no profit: sono tutte riflessioni utili e necessarie. Se però andiamo all’essenza della questione, al significato che tale esperienza assume per ciascuno di noi non possiamo fare a meno di riconoscere che il servizio è una esperienza individuale e collettiva di liberazione. Liberando gli altri dalla gabbia, evadiamo dalla nostra stessa prigione. Sollevando il peso che li schiaccia, solleviamo il fardello interiore che ci umilia, battendoci per la loro dignità contribuiamo a creare un mondo più bello e più giusto per noi e per i nostri figli. Certo, può sembrare un paradosso affermare che servire ci renda più liberi ma questo è ciò che avviene nella realtà delle cose per quanto tale realtà possa apparire irrazionale e contraddittoria. Ovviamente irrazionale per chi si lascia orientare dai modelli edonistici e consumistici che caratterizzano molte delle nostre relazioni personali e sociali. I modelli di società che affermano i diritti e cancellano i doveri. I modelli di sviluppo in cui inevitabilmente gli altri diventano strumenti per il raggiungimento della nostra felicità individuale e non dei fini a cui tendere. I modelli culturali di una città fatta di monitor e di specchi che riflettono migliaia di volte la nostra stessa immagine, le cattedrali dell’individualismo nelle quali celebriamo la religione delle nostre solitudini.
Eppure non c’è nessuno che sia più prossimo agli altri quanto due piccole suore nel loro convento di clausura sulla cima del monte. Nessuno che ti possa accogliere ed ascoltare quanto un bambino nel cuore di una preghiera. Ecco un ulteriore paradosso: pensavamo di essere noi ad accogliere gli altri (i poveri, i malati, i derelitti, gli anziani, i malati) e scopriamo nel servizio che siamo noi ad essere accolti. Pensavamo di dare, riceviamo. Pensavamo di insegnare, impariamo. Pensavamo di andare incontro, veniamo abitati.
Esco al sole, mi incammino per il sentiero. Ho chiuso la porta della biblioteca dietro di me, ho lasciato sul tavolo le mappe e le carte. Incontro gli sguardi degli uomini, stringo le loro mani, ascolto le loro parole. Qui inizia per davvero la mia avventura, dentro di me sento la voglia di cantare, di andare più lontano.
Roberto Cociancich