Eccomi in Kenia, su di un piccolo pulmino con gli ammortizzatori piuttosto scassati, coperto di polvere rossa che entra dappertutto. Insieme a me Padre Jacques Gagey. Scopo del viaggio è dare impulso al progetto della mia grande amica Antonietta Nafula Pignataro che con la sua associazione Huipalas si sta battendo per dare un futuro decente ad alcuni dannati della terra, i ragazzi che abitano tra i rifiuti della gigantesca discarica di Korogocho (Nairobi). Difficile immaginare un luogo più violento e nauseabondo e al tempo stesso negli occhi dei ragazzi un desiderio più cristallino e intenso di vita. A 100 km da Nairobi, nella Terra dei Masai, c’è un terreno tutto da dissodare ma vogliamo costruirci un piccolo villaggio che chiameremo Kiyiyi dove allevare galline, coltivare verdure e ortaggi, accogliere e ristorare viaggiatori, piantare tende con gli scout, pregare per la pace nelle lingue delle diverse religioni. Un piccolo grande progetto impossibile da realizzare se saremo solo noi, facile invece se saremo in tanti. Aiutateci per favore.
Dopo una rapida sosta in una fredda e piovosa Addis Abeba eccomi in Tanzania a Dar Er Salaam. Sole, vento, tanti sorrisi e tanta amicizia da parte di tutti.
Per quale motivo noi siamo accolti così bene quando veniamo qui e invece abbiamo così tanta diffidenza nei loro confronti? Domande che restano senza risposta.
Devo essere davvero grato a Don Domenico Cambareri che mi ha spinto a confrontarmi con le bellissime pagine di “Lettere ad una professoressa” scritte con uno stile inimitabile (rigoroso, feroce, appassionato, commuovente…) da Don Milani, il parroco di Barbiana. una lettera che ha cambiato per sempre il modo con il quale la scuola italiana ha pensato e progettato se stessa. L’occasione è stata quella di un incontro con gli studenti delle scuole medie superiori di Castenaso, con i loro insegnanti e molti genitori. Un bellissimo momento di incontro e di dialogo, per me anche emozionante proprio nel momento in cui appariva chiaro di come anche la storia di emancipazione della mia famiglia e il lungo cammino compiuto da chi mi ha preceduto e mi ha messo in condizione di essere ciò che oggi sono possa riconoscersi nelle idee e nei principi espressi da Don Milani. Il punto è che nessuno di noi deve ( e neppure è autorizzato a pensare di essere tagliato fuori, di non avere un ruolo da giocare, di avere una chance di contribuire a rendere migliore il mondo nel quale viviamo. Per riuscirci è però necessari impegnarsi a studiare, ad aumentare le nostre conoscenze e consapevolezze, ad alzarci e farci valere quando tutto rimangono acquattati e si rassegnano, a mettere in gioco le proprie competenze e i propri talenti per un bene non solo personale ma collettivo. E’ insieme agli altri che possiamo contribuire a migliorare la società, non certo da soli. Farlo è un’azione politica di cui Don Milani aveva una opinione altissima e che era per lui il contrario dell’avarizia. Educazione e politica non sono in antitesi ma azioni complementari anche se distinte. Ancora oggi, a qualunque età abbiamo tante occasioni per misurarci con questo impegno che si apre davanti a noi: per esempio nel lottare contro le discriminazioni e il cyberbullismo o nell’accoglienza degli immigrati, una battaglia tanta impopolare quanto necessaria per caratterizzare in modo dignitoso i tempi in cui viviamo. “I care“, mi prendo cura: non sono solo parole scritte in un libro ma sono una linea di condotta che ciascuno di noi deve cercare di seguire. Nel farlo la nostra stessa vita acquisterà un senso più nobile, meriterà di essere vissuta fino in fondo.
Insomma una giornata bellissima allietata anche dall’amicizia e dalle belle discussioni che ho avuto la possibilità di fare con Benedetta Renzi, Angelo Rispoli, Pietro Pirro e Pier Francesco Prata. Buon lavoro e buona strada a tutti.
PS
Proprio in questi giorni anche Papa Francesco ha sottolineato l’importanza del ruolo di Don Milani annunciando una visita sulla sua toma per il 20 giugno prossimo. Parole bellissime quelle del Pontefice che ripropongo qui di seguito insieme al video dell’intervento.
Ecco il testo integrale:
“Non mi ribellerò mai alla Chiesa perché ho bisogno più volte alla settimana del perdono dei miei peccati, e non saprei da chi altri andare a cercarlo quando avessi lasciato la Chiesa” Così scrisse don Lorenzo Milani, priore di Barbiana, il 10 ottobre 1958. Vorrei proporre questo atto di abbandono alla Misericordia di Dio e alla maternità della Chiesa come prospettiva da cui guardare la vita, le opere ed il sacerdozio di don Lorenzo Milani. Tutti abbiamo letto le tante opere di questo sacerdote toscano, morto ad appena 44 anni, e ricordiamo con particolare affetto la sua “Lettera ad una professoressa”, scritta insieme con i suoi ragazzi della scuola di Barbiana, dove egli è stato parroco. Come educatore ed insegnante egli ha indubbiamente praticato percorsi originali, talvolta, forse, troppo avanzati e, quindi, difficili da comprendere e da accogliere nell’immediato. La sua educazione familiare, proveniva da genitori non credenti e anticlericali, lo aveva abituato ad una dialettica intellettuale e ad una schiettezza che talvolta potevano sembrare troppo ruvide, quando non segnate dalla ribellione. Egli mantenne queste caratteristiche, acquisite in famiglia, anche dopo la conversione, avvenuta nel 1943 e nell’esercizio del suo ministero sacerdotale. Si capisce, questo ha creato qualche attrito e qualche scintilla, come pure qualche incomprensione con le strutture ecclesiastiche e civili, a causa della sua proposta educativa, della sua predilezione per i poveri e della difesa dell’obiezione di coscienza.
Il messaggio di Papa Francesco a “Tempo di libri” su don Lorenzo Milani
La storia si ripete sempre. Mi piacerebbe che lo ricordassimo soprattutto come credente, innamorato della Chiesa anche se ferito, ed educatore appassionato con una visione della scuola che mi sembra risposta alla esigenza del cuore e dell’intelligenza dei nostri ragazzi e dei giovani. Con queste parole mi rivolgevo al mondo della scuola italiana, citando proprio don Milani: “Amo la scuola perché è sinonimo di apertura alla realtà. Almeno così dovrebbe essere! Ma non sempre riesce ad esserlo, e allora vuol dire che bisogna cambiare un po’ l’impostazione. Andare a scuola significa aprire la mente ed il cuore alla realtà, nella ricchezza dei suoi aspetti, delle sue dimensioni. E noi non abbiamo diritto ad aver paura della realtà! La scuola ci insegna a capire la realtà. Andare a scuola significa aprire la mente e il cuore alla realtà, nella ricchezza dei suoi aspetti, delle sue dimensioni. E questo è bellissimo! Nei primi anni si impara a 360 gradi, poi piano piano si approfondisce un indirizzo e infine ci si specializza. Ma se uno ha imparato ad imparare, ha imparato ad imparare, – è questo il segreto, imparare ad imparare! – questo gli rimane per sempre, rimane una persona aperta alla realtà! Questo lo insegnava anche un grande educatore italiano che era un prete: Don Lorenzo Milani” Così mi rivolgevo all’educazione italiana, alla scuola italiana, il 10 maggio 2014. La sua inquietudine, però, non era frutto di ribellione ma di amore e di tenerezza per i suoi ragazzi, per quello che era il suo gregge, per il quale soffriva e combatteva, per donargli la dignità che, talvolta, veniva negata. La sua era un’inquietudine spirituale, alimentata dall’amore per Cristo, per il Vangelo, per la Chiesa, per la società e per la scuola che sognava sempre più come “un ospedale da campo” per soccorrere i feriti, per recuperare gli emarginati e gli scartati. Apprendere, conoscere, sapere, parlare con franchezza per difendere i propri diritti erano verbi che don Lorenzo coniugava quotidianamente a partire dalla lettura della Parola di Dio e dalla celebrazione dei sacramenti, tanto che un sacerdote che lo conosceva molto bene diceva di lui che aveva fatto “indigestione di Cristo”.
Il Signore era la luce della vita di don Lorenzo, la stessa che vorrei illuminasse il nostro ricordo di lui. L’ombra della croce si è allungata spesso sulla sua vita, ma egli si sentiva sempre partecipe del Mistero Pasquale di Cristo, e della Chiesa, tanto da manifestare, al suo padre spirituale, il desiderio che i suoi cari “vedessero come muore un prete cristiano”.
La sofferenza, le ferite subite, la Croce, non hanno mai offuscato in lui la luce pasquale del Cristo Risorto, perché la sua preoccupazione era una sola, che i suoi ragazzi crescessero con la mente aperta e con il cuore accogliente e pieno di compassione, pronti a chinarsi sui più deboli e a soccorrere i bisognosi, come insegna Gesù (cf Lc 10, 29-37), senza guardare al colore della loro pelle, alla lingua, alla cultura, all’appartenenza religiosa. Lascio la conclusione, come l’apertura, ancora a don Lorenzo, riportando le parole scritte ad uno dei suoi ragazzi, a Pipetta, il giovane comunista che gli diceva “se tutti i preti fossero come Lei, allora …”, Don Milani rispondeva: “il giorno che avremo sfondato insieme la cancellata di qualche parco, istallato la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordati Pipetta, quel giorno ti tradirò, quel giorno finalmente potrò cantare l’unico grido di vittoria degno di un sacerdote di Cristo, beati i poveri perché il regno dei cieli è loro.
Quel giorno io non resterò con te, io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso” (Lettera a Pipetta, 1950) Accostiamoci, allora, agli scritti di don Lorenzo Milani con l’affetto di chi guarda a lui come a un testimone di Cristo e del Vangelo, che ha sempre cercato, nella consapevolezza del suo essere peccatore perdonato, la luce e la tenerezza, la grazia e la consolazione che solo Cristo ci dona e che possiamo incontrare nella Chiesa nostra Madre”.
Signor Presidente, cari colleghi, vorrei condividere con voi il ricordo e la tristezza per la scomparsa di Giancarlo Lombardi, avvenuta il 31 marzo a Milano. Aveva settantanove anni.
Spero che nel parlare non mi faccia velo la lunga amicizia che ho avuto il privilegio di intessere con lui per quasi trent’anni. Molti in quest’Aula lo hanno conosciuto, lo hanno stimato e sanno dunque che per lui l’amicizia era fatta di franchezza esigente e a volte burbera, ma che essa era soprattutto un sentimento pulito, mai interessata o di convenienza. Era la scelta di condividere un cammino per giungere insieme ad una meta.
Giancarlo Lombardi è stato Ministro della pubblica istruzione dal 1995 al 1996 con il Governo Dini. Fu anche deputato, eletto nella XIII legislatura nelle liste del Partito Popolare Italiano, e militò nella Margherita. Fu imprenditore, presidente di Federtessile, vice presidente di Confindustria con delega all’istruzione, membro di numerosi consigli di amministrazione di società, associazioni, enti, delle università LUISS e Cattolica e, da ultimo, del Collegio di Milano, che aveva contribuito a fondare.
Presentando se stesso si definiva innanzitutto uno scout; come diceva: «Lo scoutismo è la seconda cosa più importante della mia vita dopo la famiglia». Ha avuto tre figli, Andrea, Marco e Paolo, e una compagna di vita, Ninetta, di straordinaria finezza, sempre al suo fianco con coraggio e con il sorriso, anche nei momenti più difficili e bui della loro esistenza. Tra questi, la morte del figlio Andrea fu certamente il più tragico.
Dunque innanzitutto uno scout… Giancarlo Lombardi promosse e realizzò la fusione tra l’Associazione scout cattolica maschile (ASCI) e quella femminile (AGI), dando vita, nel 1974, all’Associazione guide e scout cattolici italiani (AGESCI). Una fusione che a quel tempo fece storcere il naso ad alcuni esponenti del mondo cattolico e delle gerarchie ecclesiali, suscitando critiche e riserve anche aspre. Giancarlo difese con fermezza quella scelta, rivendicando, in linea con il Concilio Vaticano II, la sfera di autonomia di laici e credenti: cristiani adulti. In realtà fu il coraggio di aprire una strada, di stare sulla frontiera e di contribuire a cambiare il costume della nostra società e il modo di essere dei laici nella Chiesa.
Fu anche presidente dell’AGESCI dal 1976 al 1982, anni in cui si assistette al raddoppio degli iscritti, che diventarono in breve quasi 200.000, a conferma della felicità della sua intuizione. Per molti anni svolse attività di formazione con i campi scuola nell’amatissima Val Codera, sopra Colico, luogo di selvaggia bellezza, teatro delle imprese delle Aquile randagie, quei gruppi di scout che avevano continuato le attività in forma clandestina durante gli anni del fascismo e che avevano accompagnato tanti ricercati, tanti ebrei, tanti perseguitati politici a riparare in Svizzera. Giancarlo è stato giustamente considerato il miglior erede e interprete di quell’esperienza di libertà e impegno.
Coniugare la serietà meticolosa negli impegni assunti e uno spirito libero, una visione utopistica e persino un po’ ribelle della vita è stata una delle caratteristiche che lo hanno fatto tanto amare da generazioni di giovani capi scout e non solo, che si sono formati alla sua scuola. Ha scritto sulla rivista «RS-Servire», di cui è stato per tanti anni direttore, a proposito del coraggio dell’utopia: «La parola “utopia” non significa affatto una cosa bella ma impossibile o peggio ancora un sogno irrealizzabile e irresponsabile, ma al contrario vuole indicare una meta da cercare e perseguire perché possibile, di un cammino forse difficile ma fattibile».
Dopo la laurea in ingegneria al Politecnico di Milano, si recò per un periodo di volontariato in Africa, dove conobbe e collaborò con Albert Schweitzer, il celebre medico alsaziano, premio Nobel per la pace, che aveva fondato a Lambaréné un centro per la cura della lebbra.
Tornato in Italia, andò dapprima a lavorare all’Olivetti e poi presso l’azienda di famiglia, la Filatura di Grignasco, che sviluppò e fece crescere fino a farla diventare un gruppo con oltre 1.500 dipendenti e 150 miliardi di lire di fatturato. Era considerato un imprenditore idealista, impegnato nella tutela dell’ambiente, nel rinnovamento dei settori di depurazione delle acque di lavorazione, delle relazioni industriali, dei rapporti con il personale, dell’introduzione dell’informatica di avanguardia. Soprattutto – e fu anche criticato per questo – egli metteva al centro il lavoratore, la sua dignità, il rafforzamento delle sue capacità e la sua formazione, individuando nel lavoro un fattore di promozione e sviluppo della persona.
Il contrasto alla dispersione scolastica e l’interrelazione tra studio e lavoro come chiave per la maturazione della persona sono stati anche al centro del suo progetto di riforma della scuola, alla cui preparazione dedicò grandi energie, passione e intelligenza, e che cominciò a realizzare durante l’esperienza ministeriale del Governo Dini. Con una scelta abbastanza inconsueta anche ai giorni nostri, rifiutò il posto di Ministro dell’università e della ricerca (a quel tempo distinto da quello della pubblica istruzione), offertogli nel Governo Prodi, perché non gli sembrava serio occupare un posto per il quale non si sentiva adeguatamente preparato. Egli visse con un sentimento di grande amarezza il non poter dare seguito a quella riforma scolastica per la quale si era tanto speso.
Oggi, però, molte delle sue intuizioni e idee si sono comunque affermate e rappresentano il meglio delle esperienze innovative che vengono sperimentate nel nostro Paese.
Giancarlo Lombardi è stato un uomo di grande cultura e vastissimi interessi e curiosità, ossessionato dal mettere qualità e attenzione anche nelle piccole cose (le piccole cose che a volte fanno il tutto) e nel cercare di vivere con grande rettitudine. In questo egli era esigente con sé, così come con gli altri, specialmente coloro ai quali voleva maggiormente bene.
Signor Presidente, ricordo che Giancarlo Lombardi venne a trovarmi poco tempo dopo l’inizio della legislatura e ci sedemmo nel corridoio dietro l’Aula, dove ci sono le poltroncine azzurre. Pensavo che volesse parlarmi di politica, invece era venuto per dirmi che non bisogna mai essere gretti, nemmeno con gli avversari politici, e per ammonirmi a non lasciarmi tentare dalle frivolezze della vita romana.
Giancarlo Lombardi è stato un grande amico della comunità di Bose e del suo fondatore, fratel Enzo Bianchi. Egli si interessava di ecumenismo e dialogo interreligioso, conosceva a fondo le opere di Karl Barth e amava citare Martin Buber. Soprattutto, egli amava Dietrich Bonhoeffer, il teologo tedesco protestante impiccato nel campo di Flossenbürg nell’aprile 1945. Ha scritto Bonhoeffer: «Non di geni, né di cinici, né di gente che disprezza gli uomini, né di tattici raffinati abbiamo bisogno, ma di uomini aperti, semplici, diritti. Ci sarà rimasta tanta forza di resistenza interiore (…), tanta spietata sincerità verso noi stessi da poter ritrovare la strada della semplicità e della rettitudine?» È più da furbi essere pessimisti: si dimenticano le delusioni, si sta in faccia alla gente senza compromettersi. Così l’ottimismo è passato di moda presso i furbi. Nella sua essenza l’ottimismo è una forza della speranza dove gli altri si sono rassegnati, la forza di tenere alta la testa anche quando tutto sembra fallire, la forza di reggere i colpi, la forza che non lascia mai il futuro all’avversario, ma lo reclama per sé. Si tratta di parole che Giancarlo ha citato tante volte e soprattutto testimoniato con la sua esistenza. Larger than life, direbbero gli anglosassoni, ossia più grande della vita. Questo è stato Giancarlo Lombardi, un uomo che ha tenuto fede alla promessa di lasciare il mondo un po’ migliore di come lo ha trovato.
(Applausi dai Gruppi PD,Aut (SVP, UV, PATT, UPT)-PSI-MAIE e Misto-SI-SEL, del senatore Carraro e dai banchi del Governo).
E’ uscito da poco l’ultimo quaderno di RS Servire sul tema “Duty to God”. Questo il mio contributo.
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“Prometto di compiere il mio dovere verso Dio e verso il mio Paese”. Così recita la promessa scout nella formulazione che è adottata (con lievi varianti) un po’ dovunque nel mondo.
La prossima conferenza Mondiale dello scautismo, che si terrà in Azerbaijan nel 2017, sarà chiamata a pronunciarsi sul tema del “Duty to God” cioè la possibilità per le varie associazioni scout nazionali, di adottare un testo alternativo e più precisamente un testo che non contenga alcun riferimento a Dio sostituendolo con un riferimento a determinati valori oppure sopprimendolo del tutto.
Si tratta in realtà di una di una strada sulla quale si sono già incamminate alcune associazioni (prevalentemente europee) e in merito alla quale il Comitato Mondiale WOSM ha già dato un parere favorevole. Il caso più noto è quello della UK Scout Association, che dopo un ampio dibattito interno, ha introdotto, sotto forma di opzione in alternativa alla versione classica che rimane pur sempre possibile, una formula che impegna al “rispetto dei valori scout”. Prima degli inglesi altre associazioni sono state ancora più radicali: gli Scouts del Belgio, per esempio, hanno tolto ogni riferimento a Dio sia nella Promessa che nella Legge e così, sembra si apprestino a fare gli scout della Catalogna e quelli irlandesi.
A sostegno della posizione che per semplicità definirò “abolizionista” viene portato il principio di non discriminazione: secondo i suoi sostenitori, infatti, in tal modo si permetterebbe anche a coloro che non hanno alcuna credenza o fede di partecipare alle attività scout e di beneficiare del bene che esse portano a chi le pratica. Mantenere il riferimento a Dio nella Promessa precluderebbe la possibilità ai figli degli atei, degli agnostici, degli indifferenti di vivere la magica avventura dello scautismo che Baden-Powell aveva pensato aperta a tutti e specialmente a chi è maggiormente ai margini della società.
L’introduzione di un riferimento ai “valori scout” in luogo di quello a Dio implica la convinzione che essi abbiano una portata più universale di quelli religiosi e dunque più condivisibili da chiunque.
Ovviamente la posizione abolizionista non vieta, almeno per il momento, la professione all’interno delle attività scout di una Fede o di una religione. Inevitabilmente però questa diventa il frutto di una scelta individuale anziché collettiva. Questo punto necessiterebbe un approfondimento ma in queste righe non ho lo spazio per farlo.
Se la questione potesse essere riassunta solo in questi termini io ritengo che non si potrebbe fare altrimenti che appoggiare la proposta abolizionista: nessuno di noi infatti se la sentirebbe di discriminare altri sulla base di un credo religioso e a maggior ragione se si tratta di bambini o giovani. Ho avuto modo di guardare un video preparato dal Bureau Mondiale a sostegno della posizione abolizionista in cui si vedeva un bambino dallo sguardo dolcissimo che diceva: “mio papà non ha la fortuna di credere, per piacere lasciatemi giocare con voi…”. Non c’è dubbio che se verrà proiettato alla Conferenza in Azerbaijan avrà un impatto emotivo molto forte.
La questione però non mi pare debba essere affrontata solo da un punto di vista emotivo e dovrebbe essere invece una occasione per ragionare su cosa sono in definitiva questi valori scout o se preferite che cosa è lo scautismo .
E’ indubbio che vi sono almeno due modi di guardare alla vita scout: il primo, riconducibile alla tradizione anglosassone, ne mette in risalto il fatto di essere una serie di attività che rafforzano il carattere, la forza fisica, l’abilità manuale, la capacità di socializzazione, la competenza e il senso di responsabilità. Insomma un metodo educativo straordinario e ricco che grazie alle intuizioni del fondatore fa del ragazzo il protagonista della sua stessa crescita e lo rende un buon cittadino. Non si può negare che tutto questo sia assolutamente positivo e forse ci sarebbero abbondanti motivi per essere più che soddisfatti già così.
C’è però anche un secondo modo di intendere lo scautismo che oltre scuola di carattere e di buona cittadinanza è visto nella sua potenzialità di essere una strada attraverso la quale i ragazzi possono avvicinarsi a riflettere, interiorizzare e comprendere non solo il come ma anche il perché della loro esistenza, il senso ultimo della vita, il perché della sofferenza, della speranza, dell’amore, della paura della morte, del silenzio del creato. Insomma una esperienza che oltre ad essere uno straordinario metodo educativo disvela il mistero del legame invisibile che lega ciascuno di noi alla natura, a coloro che ci hanno preceduto o che verranno dopo di noi, agli altri uomini e donne che abitano la Terra e ci rende responsabili gli uni degli altri. Se ciò è possibile è perché si presuppone la nostra appartenza ad una sola famiglia, al di là delle differenze – in certi casi persino religiose – che sembrando dividerci; insomma il fatto di essere tutti fratelli implica di avere un medesimo Padre, il fatto di amarci presuppone di essere a nostra volta radicalmente amati, il fatto di perdonare di essere stati a nostra volta perdonati e salvati. Se si accede a questa seconda visione dello scautismo non si può fare a meno di considerare che esso abbia una natura intrinsecamente religiosa ma non nel senso di essere esso stesso una nuova religione bensì di essere una porta aperta, un ponte lanciato verso, un trampolino che ci permette di saltare più in alto e di cogliere con lo sguardo quel mantello misterioso che avvolge l’umanità e il creato e che noi chiamiamo esperienza religiosa. Religiosa, si badi bene, non solo spirituale, perché la Fede non ci impegna solo in una dimensione di interiorità, di intima relazione, di personale diaologo con Dio ma ci impegna invero con tutto il nostro essere e dunque anche il nostro corpo, con le nostre scelte, con il nostro comportamento a testimoniare ciò in cui crediamo. Ci impegna non solo individualmente ma tutti insieme come grande famiglia umana. A costo di usare un linguaggio antico, apocalittico e forse anche demodé (ma guardando a ciò che succede oggi con i migranti, le guerre, le violenze all’ambiente, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo è un linguaggio non del tutto inattuale) mi sentirei di dire che ancora oggi la luce si trova a lottare contro le tenebre e che ciascuno di noi si trova quotidianamente chiamato a decidere da che parte stare.
Non sono stati pochi coloro che hanno intrapreso, grazie allo scautismo, un cammino di scelte radicali che li ha portati in certi casi persino a mettere a rischio e sacrificare la propria vita come dono agli altri.
Esiste, a mio modo di vedere, una potenzialità intrinseca nello scautismo, una capacità di suscitare nel cuore di un ragazzo che contempla le stelle davanti al fuoco di una veglia, o mentre porge le mani per bere ad una fonte, dicevo esiste nello scautismo una capacità di suscitare un desiderio di grandezza, di purezza, di bellezza che può ispirare tutta l’esistenza. Ritengo che tutti noi, nella nostra vita di Capi, abbiamo incontrato almeno una volta uno di quegli sguardi, sentito quella attesa e compreso che malgrado la nostra piccolezza eravamo parte di un Gioco misterioso in cui la Vita lancia sorridente la sua sfida alla morte. “Io prevarrò” dice la vita e lo fa attraverso quegli sguardi.
Per me il Dovere verso Dio è mantenere vivo questo sguardo, questo Gioco, questo contesto denso di significati, questa fiamma che ci arde in cuore, questa possibilità offerta a tutti i nostri ragazzi di incamminarsi su un sentiero fatto non solo di buio e di terra ma anche di stelle. Insomma detto in altre parole il dovere verso Dio consiste nel testimoniare che non che non siamo nati per morire ma per vivere. Per quanto mi riguarda mai come nelle attività scout ne ho provato sulla pelle la certezza.
Dunque torniamo alla domanda: è questa una dimensione essenziale dello scautismo o solo una sua opzione? Io propendo per la prima ipotesi e ne concludo che senza questa dimensione il torto viene fatto non alla religione ma allo scautismo. Difendere il “Duty to God” significa per me difendere un’idea alta di scautismo e farlo nell’interesse dei nostri ragazzi, di tutti i ragazzi anche di coloro che appartengono a famiglie di non credenti. Una responsabilità che porto non da solo ma con tutti coloro che nell’alba della loro vita hanno un giornato pronunciato le fatiche parole “Con l’aiuto di Dio, prometto sul mio onore…”
Fino a qui mi sono espresso senza alcun riferimento specifico alla Fede cattolica consapevole che nello scautismo sono presenti anche tante altre religioni e ho quindi cercato di sviluppare un ragionamento di natura non confessionale e che ritengo possa essere accettato anche da un protestante, un ebreo, un mussulmano o un buddista… Ancor più incisivo e forte potrebbe però essere il mio discorso se lo legassi alla figura di Gesù, per noi l’Unico Maestro, maestro di strada, di semplicità, di generosità le cui parole e gesti hanno intriso e ispirato per oltre cent’anni le attività degli scout cattolici. Quante Messe, quanto meditazioni, quanti servizi, quanti pellegrinaggi con coloro che soffrono. Quanta storia vissuta e tramandata tra generazioni. Era davvero opzionale? Lo è diventata ora? Con questa nuova (possibile) alternativa stiamo guadagnano o perdendo qualcosa?
Io non credo che la religione e soprattutto la religione cattolica sia un fattore di discriminazione nello scautismo e sono testimone, al contrario, di tante esperienze in cui proprio nei suoi valori si sono fondate delle scelte da parte gruppi scout di accoglienza e solidarietà verso chi portava tradizioni e credenze diverse. Anche a livello mondiale sto sperimentando, come presidente della CICS (Conferenza Internazionale Cattolica dello Scautismo) , un impegno comune da parte di tutti i leader delle altre organizzazioni scout a denominazione religiosa a sviluppare con passione un dialogo interreligioso e interconfessionale che attesti quanto nello scautismo le religioni sono un fattore di amicizia, comprensione, rispetto reciproco. Trovo quindi ingiusto che si attribuisca alle religioni un ruolo di discriminazione e di divisione che non solo non hanno avuto ma contro il quale sono fortemente impegnate. Proprio i grandi conflitti che oggi si combattono pretestuosamente nel nome delle religioni ci dovrebbe vedere impegnati a non banalizzarle o caricaturalizzarle ma svelarne il vero volto che è quello dell’amore e della pace. Oggi il mondo ha bisogno soprattutto di questo.
Il mio invito comunque è di non drammatizzare la questione che per quanto importante non deve essere esasperata. Il sole sorgerà anche il giorno dopo la chiusura della Conferenza in Azerbaijan, qualunque sia l’esito di questo dibattito che sta appassionando tanti in tutto il mondo. Lo scautismo e le religioni saranno ancora lì, qualunque sia la decisione che verrà presa. Cerchiamo di sorridere anche nei momenti difficili, soprattutto di sorridere gli uni agli altri, con simpatia e desiderio di volere il bene dell’altro. Sorridere sarà già un modo per incamminarci insieme verso il superamento delle difficoltà.