Avventura Goum
Deserto
Dedicato a Don Francesco Cassol
Questa memoria mi assilla: l’esercito di Cambise II, Re di Persia e Re dei Re, fu inviato nel deserto verso l’oasi di Siwa per distruggere il tempio di Ammon, dio del vento e del sole. Cambise, si dice, era ambizioso e aspirava ad essere egli stesso venerato come un dio. Il suo splendore non tollerava altro sole e un esercito di cinquantamila uomini partì da Tebe per oscurarlo.
Dicono che alcuni berberi li videro, lontani all’orizzonte, con le armi lucenti, le canzoni, i sogni e i carri pesanti. Il deserto li attraeva nel suo ventre come un magnete il metallo. Dicono che, ad un tratto, la loro marcia si fece più stanca, che il sole li prosciugasse e le energie a poco a poco li abbandonassero.
Poi si alzò la tempesta di sabbia e tutto si fece scuro. Il vento nascose loro la pista, l’orizzonte e persino il cielo. Invano agitarono le spade, invano scagliarono le lance, invano spronarono i cavalli.
Cinquantamila uomini scomparvero inghiottiti dal deserto e mai più alcuno seppe nulla di loro.
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Amo pensare che il Sahara li abbia preservati: nascoste, invisibili agli occhi dei mortali ancora palpitano le loro ciglia. I loro cuori pesano sul pianeta. Il deserto sembra vuoto ma un battito cardiaco (tum, tum…) si diffonde tra le dune, messaggio misterioso che chiama alla vita. Nella remota periferia della Metropoli tendo l’orecchio e ascolto il suo richiamo. Sforzo la vista oltre l’orizzonte precluso da parallelepipedi di cemento e sento, dolce e straziante, il desiderio delle grandi distese, del vento selvaggio, del silenzio profondo, di un luogo in cui urlare senza vergogna il mio bisogno di amore, di ridere e piangere, di ubriacarmi di sole e di stelle. Sento il battito che chiama, la pigrizia che insinua i suoi dubbi: partire; restare. Ogni viaggio, ogni avventura umana presuppone un conflitto interiore, una vertigine, una scelta faticosa, un cordone ombelicale da recidere.
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Con il mio zaino pesante e i miei sandali di vento mi incammino verso i grandi altopiani. Sono alla ricerca di ciò che resta ancora puro, incontaminato: il denaro non lo può comperare, il potere non lo può intimidire e neppure comprendere… Compagna di viaggio scelgo la povertà. Come si fidanza bene con il deserto la povertà! Povertà: sorgente di ricchezza. Povertà che reca a noi, uomini senza meriti, ceste di doni preziosi: la comprensione del valore intrinseco delle cose, degli sguardi, dei piccoli gesti gratuiti il cui splendore nessun tesoro del regno potrà mai eguagliare. Povertà nel deserto: essa ci dona la sete, la gola riarsa, la spossatezza delle membra. E poi la scoperta, quasi inattesa, del tintinnio dell’acqua che sgorga da una sorgente. Non c’è sinfonia al mondo, non c’è strumento musicale che possa eguagliare la felicità che dona il canto dell’acqua mentre scende per la gola stretta della mia borraccia. Povertà che ci regala il sentimento acuto della nostra finitezza: è bastato così poco perché le nostre certezze ci abbandonassero… la nostra presunzione, la nostra forza fisica, l’immagine sicura che abbiamo costruito di noi stessi. Come l’erba si piega sotto la falce anche il nostro orgoglio si inginocchia nella fatica. Credevo di essere tutto e invece sono appena poco più di niente. Eppure sono, sono, sono! Mai come ora ho avuto prepotente il sentimento di esistere. Nel deserto tutto ho perduto ma infine ho ritrovato qualcosa di me stesso.
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Il deserto ci svela la superfluità di ciò che ritenevamo necessario. Ci spoglia dell’inessenziale. Scava in noi un vuoto arido che non credevamo di poter tollerare. Poco a poco tutto l’Universo si ritrae. Il mondo diventa quella linea sull’orizzonte che si allontana, i sassi mal rotolati sul sentiero. Fiori secchi, memoria di una primavera ormai sciupata. Polvere, vento, ancora polvere. Il deserto è un Signore esigente: toglie senza promettere nulla in cambio. Fruga l’anima con i suoi artigli, impone rispetto, parla nel silenzio. Non c’è poesia nel deserto, non c’è romanzo. Solo pietre, sassi, lucertole e vento.
Perché il Buon Dio che tante cose belle ha creato ha voluto un luogo così spoglio e vuoto, un luogo che mostrasse non solo la nostra ma anche la Sua Povertà? Perché condurci a sperimentare la Sua Assenza? Come in alcune fasi della Storia vi sono luoghi dove Egli cela il Suo Volto. Uno di questi è il deserto. Possiamo cantare, gridare, imprecare, tirare sassi verso il cielo ma Egli rimane nascosto. Il Suo Creato è nascosto. Perché occultarci le Sue meraviglie? Perché questo spazio vuoto, questa mancanza di senso, questo silenzio della creazione?
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Ecco un paradosso: cerchiamo Dio proprio là dove Egli più si nasconde, cerchiamo la Sua Vicinanza dove più evidente è la Sua Lontananza. La Sua Forza dove è più chiara la Sua Debolezza. Cerchiamo la vita dove sembra passata la morte. Forse qui sta il mistero: per comprendere ciò che amiamo abbiamo bisogno di allontanarci, senza il vuoto non si intuisce il pieno, senza l’assenza non vi è alcuna mancanza. La nostra mente è ristretta: comprendiamo ancora solo poche cose di ciò che ci circonda: nella comunità scientifica si afferma che il 90% dell’Universo sia composto di materia oscura ma nulla sappiamo di essa. Più grande della nostra conoscenza è la Creazione, davvero imperscrutabile per le nostre povere vite il disegno del Signore dell’Universo. Cammino nella notte, piccolo essere insignificante che ha avuto il dono di poter contemplare le stelle: piccoli puntini bianchi nel cielo nero nascondono agglomerati di galassie dove forse la vita si trasforma in modo a noi sconosciuto. Il Cosmo come il deserto appare vuoto ma al tempo stesso nasconde in segreti anfratti la vita. E’ una speranza incerta, esile quella che si leva ma questa notte, rannicchiato su una pietra, su queste lande desolate ho sperato ardentemente che la vita sia più grande di quel che conosciamo e di poter udire anch’io il pulsare di una stella.
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Il fuoco attorno al quale abbiamo cantato ormai è quasi spento. Coricato nel mio sacco abbraccio il pianeta Terra che mi trasporta nell’orbita del sistema solare e delle costellazioni: la nostra galassia ha un nome bellissimo: Via Lattea. Quando morirò mi piacerebbe rivolgere a lei il mio ultimo sguardo. Penso ad un amico col quale ho camminato tanto sugli altopiani desertici e condiviso molto. O forse poco ma certamente l’essenziale: un po’ di cibo e l’amicizia. A lui è toccato di morire pochi mesi fa nel deserto, un colpo di fucile nel buio, un gemito. Sono convinto che abbia cercato con le sue ultime forze lo scintillio delle stelle che tanto amava. Tornare nel deserto assume oggi per me anche il significato di ripercorrere i passi di quella profonda amicizia e il desiderio di comprendere se sempre assurda sia la morte. Nella parabola di vita e di morte di Don Francesco Cassol ritrovo le domande che mi pongo da sempre: perché il Buon Dio ha accettato che venisse spezzata una vita così bella? Perché lui e non io? Perché la nostra vita è segnata dalla sofferenza? Domande che da migliaia di anni uomini e donne si pongono.
Mi inoltro sui sentieri invisibili del deserto per capire quanto la morte ci aiuti ad apprezzare e spendere meglio l’esistenza. Forse basterebbe una traccia, forse solo un battito di ciglia, il segno che il cuore del mondo palpita ancora sebbene nascosto.Che quel battito risvegli e liberi anche il nostro cuore arrugginito e indirizzi i nostri passi sulla strada della Vita.
La charité fraternelle
Nous, hommes et femmes que l’histoire a placés entre deux siècles et deux milleniums, nous avons bien clairs devant nos yeux tous les rêves, toutes les merveilles, tous les développements, toutes les conquêtes (techniques, scientifiques) que l’humanité a su élaborer et produire dans notre contemporanéité ; en même temps, avec la même clarté, nous avons devant nos yeux tous les crimes, toutes les atrocités, tous les désespoirs qui ont blessé cet âge.
Jamais dans l’histoire comme aujourd’hui nous avons eu tous les moyens (économiques, culturelles, techniques) utiles et nécessaires pour résoudre les grands problèmes du monde entier. Jamais comme aujourd’hui nous nous sommes éloignés de l’harmonie avec la nature, la Création et de la paix entre les différents communautés des hommes.
C’est un véritable paradoxe ! Ce serait relativement facile, aujourd’hui, de vaincre la bataille contre la famine, la soif, les maladies qui ont semé mort et le désespoir pendant les siècles qui nous ont précédé. Ce serait relativement facile garantir à tous les hommes la dignité et les droits à la liberté, la sécurité, la justice, l’égalité qui ont été affirmé par la déclaration universelle signé en 1948 par l’Assemblée Générale des Nation Unies.
Par contre, jamais comme aujourd’hui nous devons constater que la liberté des hommes et des femmes est menacé, que leurs droits sont méprisés, qu’il y a des risques pour la Terre de ne pouvoir pas survivre plus que trente ou quarante ans encore.
La vie est menacé du premier jour de sa conception jusqu’au dernier et pour beaucoup d’hommes elle n’est que dégoût ou une simple parenthèse entre deux néants.
Chacun de nous a une grande responsabilité et un rôle à jouer. Il faut tout d’abord faire une choix. Devant nous il y a deux routes : la première est celle de ceux qui veulent faire de leur mieux pour devenir ses homme et de femmes dans le sens le plus haut du terme, des hommes et des femmes disponible ad accueillir les autres dans leur maisons et dans leur cœur, à se battre pour que la dignité de toute homme soit respecté, pour que la terre ait une futur et la vie une chance. Pour eux les autres sont toujours des fins, jamais des moyens. Sur ce chemin il y a beaucoup qui nous ont précédé et celui qui est allé plus loin de tous les autres c’est un homme qui est arrivé à donner sa vie non simplement pour ses amis mais aussi pour ses ennemies. Il était sur la croix et encore il donné de l’espoir de vie aux larrons qui étaient autour de lui. Il n’était pas simplement un homme : il était l’Homme (comme déclara Pilate) : l’on ne peut pas être homme meilleur car on peut pas imaginer un sacrifice plus dur, gratuit, volontaire et innocent que le sacrifice de ce homme. Si le mot charité signifie amour il n’existe pas une charité plus parfaite. Si le mot fraternelle signifie être fils d’un même père, il n’existe pas quelqu’un que nos à appris mieux qu’il ya un seul Père et que nous sommes tous des frères avec la même dignité (qui est la dignité de tous les fils de Dieu).
Il y a une deuxième route: c’est la route de ceux qui essayent d’arriver le premier, de devenir plus riches, plus puissants, plus quelque chose, n’importe pas à quel prix (ce sont les autres qui doivent le payer). De ceux qui ne s’occupent pas des autres ou qui essayent de les utiliser pour leurs buts. Les autres sont des moyens ou simplement n’existent pas. Ces types là ne sont pas nécessairement des hommes sulfureux. Nous avons appris de Anna Arendt que souvent le mal est banal. La médiocrité, la banalité, être loin de la réalité, le manque et l’absence de idées, est plus dangereux que la méchanceté. L’histoire de Adolf Eichmann, l’homme qui organisa d’une façon méticuleuse la shoah est exemplaire : il s’agissait d’un type qui après avoir passé la journée à envoyer des milliers des hébreux à Auschwitz ou Mauthausen rentrait chez lui pour jouer avec ses enfants et parler des projets des vacances avec sa femme….
Ceux qui choisissent de marcher sur ce chemin doivent savoir que l’homme peux devenir la pire des bêtes et que le récit de des Métamorphoses de Kafka ou Gregor Samsa se réveille et découvre qu’il est devenue un grand scarabée peut devenir pour eux une réalité.
L’aventure Goum nous donne une chance pour bien choisir notre chemin.
Voilà trois pistes que je vois pour un goumier qui veut donner au mot « charité fraternelle » une signification concrète dans notre époque.
En premier lieu charité fraternelle signifies service. C’est à dire se mettre directement (et discrètement) à disposition pour aider les autres, pour comprendre leurs besoins (même quand ils ne l’expriment pas) et donner ses mains, son temps, ses souris, ses énergies pour eux. Pendant un raid Goum il y a des innombrables occasions d’apprendre cette aptitude de vie ce qui a un valeur surtout si ça devient une façon de vivre habituelle (et donc surtout quand on rentre chez nous). Service est un engagement de libérer les autres qui a comme résultat de libérer nous mêmes.
En deuxième lieu charité fraternelle veut dire espérance. En autre termes sa signifie donner du courage, voir le mal mais regarder au bien, soutenir ceux qui sont trop faibles pour marcher tous seuls (dans nos raids comme dans la vie). Espérance est un service non pas seulement aux autres mais à la vie elle même. Nous avons un devoir d’être hommes et femmes d’espérance et non pas seulement d’être optimiste (ce qui pourrait être un peu naïf…) car nous sommes des hommes de foi. (la charité, l’espérance et la foi sont les trois nom de l’amour et les caractéristiques fondamentales – on disait les vertus théologales – des chrétiennes). Espérance signifies rester debout quand les autres s’assoient, croyants quand les autres désespèrent, les mains ouvertes quand les autres serrent les poignées.
En troisième lieu charité fraternelle veut dire respect de la vérité. C’est à dire capacité de dire les choses comme elles sont, sans ambigüités ni plaisanteries. Il ne s’agit pas seulement d’une capacité de correction fraternelle (ce qui est toujours très important) mais aussi une capacité de rechercher et faire des approfondissements sur le plan intellectuel et culturel des raisons qui soutiennent le respect des valeurs dont j’ai parlé au début de cet article. Les goumiers, il est bien envident, sont avant tout des hommes de terrain mais ça ne signifies pas qu’ils ne soient pas capables de témoigner, une fois qu’ils sont rentré chez eux, la vérité des relations, des valeurs, des réalité que nous avons vécues pendant un raid. Une fois que l’on a découvert que la vie est faite pour être donné et multiplié car notre futur est la Vie, il faut l’annoncer au monde entier et dans ce monde complexe il faut pourtant être capable d’en parler même aux philosophes qui voudraient nous convaincre (avec un certain succès, des fois, il faut l’admettre) que notre destin est simplement le néant.
Que les étoiles des bergers puissent éclairer notre chemin dans la nuit dans ce temps de Noel !
La bellezza che salva
“E’ vero, principe, che voi diceste un giorno che il mondo lo salverà la bellezza? Signori – gridò a tutti – il principe afferma che il mondo sarà salvato dalla bellezza… Quale bellezza salverà il mondo?”
L’idiota
Fedor Dostoevskij
Quale bellezza salverà il mondo? Una domanda che non possiamo eludere. Probabilmente non la bellezza solo esteriore, quella fatta di cosmesi ed apparenze. Una bellezza più profonda, quella che intravediamo nel cuore della persona amata. Lo splendore della primavera, l’incanto che suscita in noi un’azione coraggiosa, ben fatta, giusta. Ci sono gesti o persone che ci affascinano per la bellezza interiore che sanno esprimere esteriormente. Gli artisti hanno in questo una dote speciale perché meglio di altri sanno cogliere quella bellezza e rivelarla al mondo. Tutti noi dobbiamo, da questo punto di vista, aspirare a diventare artisti. Artisti con la nostra vita. Artisti che sanno vedere il bello nella vita degli altri. Osserva il Cardinale Martini: “Non basta deplorare e denunciare le brutture del mondo, Non basta neppure, per la nostra epoca disincantata, parlare di giustizia, di doveri, di bene comune (…) Bisogna irradiare la bellezza di ciò che è vero e giusto della vita perché solo questa bellezza rapisce veramente i cuori e li rivolge a Dio”.
Tante volte la nostra vita, pur essendo ispirata a valori positivi è grigia, priva di slancio, concentrati come siamo a guardare gli aspetti negativi della realtà, i problemi, le cose che non vanno. Dobbiamo invece recuperare la capacità di interpretare e creare bellezza intorno a noi. Basta poco: un po’ di gusto, un pizzico di creatività, il senso delle cose semplici e un sorriso.
Uomini e cattedrali
Non è un caso che l’équipe de Tete, per la sua prima riunione di quest’anno abbia cercato un luogo alto, la Cattedrale di Chartres, un luogo che irradia bellezza. Qui persino le pietre, nel loro millenario silenzio parlano e raccontano di slanci, di ardore, di fede appassionata, di fantasia creatrice, di audacia e coraggio. Certo, non solo per costruire ma anche solo per immaginare una simile meraviglia sono state necessarie una forza, una immaginazione, una capacità di sognare cose nuove assolutamente straordinarie
Tali opere evidentemente non nascono dal nulla o da un solo genio individuale ma sono il portato delle aspirazioni e della cultura di intere generazioni e della loro capacità di trovare risposte a nuove condizioni ambientali, economiche, geografiche.
Attraverso tali opere la civiltà che le ha prodotte si lascia comprendere e interpretare. Ciò avviene per il Partenone di Pericle che racchiude l’esperienza di Atene, maestra di razionalità e di armonia; per il tempio di Bourroboudour che esprime, nel suo ordine caotico e nella sua ricchezza straripante l’intera India Brahminica; l’elenco potrebbe continuare a lungo e giungere fino a New York che, con i suoi mirabolanti grattacieli di acciaio e cristallo e le sue malinconiche panchine affollate da “homeless”, simboleggia in modo efficace i contrasti della nostra epoca segnata da contraddizioni e complessità non ancora risolte. Ancor oggi, in realtà, gli uomini sanno costruire cattedrali meravigliose la cui architettura nasconde e rivela segreti senza tempo: la Sagrada Familia di Barcellona, ad esempio, opera ancora non compiuta del grande Architetto Gaudì,è un luogo colmo di mistero, bellezza e incanto.
Le cattedrali gotiche, costituirono il risultato di uno sforzo straordinario di rinnovamento teologico e filosofico, di ricerca di nuove soluzioni tecnologiche, di una visione dell’uomo e dei suoi rapporti fortemente integrati con il mondo e con Dio. Gli antichi edifici sacri costruiti di pietre sono in qualche modo un riferimento alle “pietre viventi” che sono i credenti e alla “Pietra Vivente” che è Cristo.
Avvicinandomi a Chartres insieme a Pere Dominique, Aude e Stefano e scorgendo, quasi all’improvviso, in fondo alla campagna, le guglie mirabolanti della Cattedrale, pensavo ai sentimenti che dovevano provare alla sua vista i contadini o i pellegrini del medio evo: anche il più umile e misero dei fedeli entrando nella cattedrale avrebbe percepito o quantomeno intuito nel recondito del suo animo che quella grandiosa costruzione diceva qualcosa di lui e del suo destino trascendente.
Non si tratta di una semplice meraviglia per i virtuosismi tecnici degli architetti ma del comprendere, sia pure in modo confuso come doveva essere per gli uomini di quella epoca (ma forse anche della nostra) che esiste dietro una tale costruzione una visione globale dell’uomo all’interno della comunità cui egli appartiene e del destino di eternità a lui riservato. Le opere di quei costruttori rivelarono però che molti di essi avevano non solo del talento ma anche del genio; essi furono architetti nel senso pieno e più nobile del termine, uomini capaci di conciliare l’economicità con la qualità, il prestigio e la bellezza.
I costruttori dei “grattacieli di Dio” (secondo l’espressione di Le Corbusier) erano dunque uomini di grande audacia e al tempo stesso di molteplici conoscenze. La passione e l’ansia di bellezza degli uomini di quel tempo non è spenta. Ancora oggi, sia pure cercando modi e forme diversi da quelle in uso nel XII° secolo, molti uomini aspirano a riunirsi in comunità viventi e creare segni che di esse lascino la traccia. I goums sono uomini e donne di questo tipo e di questa qualità.
Ciò che più di ogni altra cosa sorprende ancora oggi di quei costruttori è la loro capacità la volontà di unire in grandi e meravigliose costruzioni arti, mestieri, percorsi umani profondamente diversi. Venivano da paesi lontani e distanti fra loro. Seppero valorizzare quelle diversità mettendole al servizio di un’opera grande al cospetto di Dio e degli uomini.
Con un parallelo più vicino alla nostra esperienza potremo sostenere che essi possedevano lo stesso spirito dei pionieri, degli uomini delle “nuove frontiere” che sono i Goums: uomini e donne che amano cercare in luoghi ignoti le risposte necessarie per affrontare i nuovi problemi e le nuove sfide del loro tempo. Per questo noi li sentiamo vicini, uomini e donne di quelle nuove frontiere verso le quali anche noi vorremmo avanzare.
Oggi costruire cattedrali significa anche impegnarsi per la costruzione di una città più giusta. L’impresa non è di minor audacia e necessita, come un tempo, di architetti, come di carpentieri, di artigiani, come di artisti, di semplici operai come di attenti ingegneri.
Le cattedrali dei Goums
Nella loro ricerca di bellezza i goums partono verso il deserto. A mani nude, con fatica, ogni giorno costruiscono una piccola cattedrale. Non è una semplice incombenza pratica, un dovere da svolgere. E’ un atto di creatività, di ricerca della bellezza. Costruire l’altare significa preparare un cerchio che accoglie ogni membro della comunità, un cerchio che non si chiude in se stesso ma che si apre, come una preghiera, verso l’infinito. I canti e le preghiere si innalzano verso il cielo e restituiscono a Dio una lode di ringraziamento per le meraviglie del Creato. Ma se anche non fossimo capaci di pregare, se fossimo stonati o dalla nostra bocca non uscissero né voce né note musicali, se anche i nostri pensieri fossero chiusi al trascendente, già le pietre che portiamo sono un canto e una preghiera. Portando una pietra o anche semplicemente un fiore ciascuno di noi contribuisce innalzare con le pietre un inno a Dio. Noi sappiamo che la pietra scartata può divenire testata d’angolo. Malgrado la nostra poca fede, la nostra scarsa capacità di stare con gli altri e con Dio, nel cercare con perseveranza di compiere dei segni di bellezza, di poesia, di gratuità esprimiamo la nostra aspirazione profonda a fare della nostra vita qualcosa di meglio, a impegnarci con gli altri per rendere questo mondo più giusto e umano, a tenere accesa la lampada della speranza anche quando intorno a noi tutto sembra farsi oscurità e notte. Che la luce di questa lampada accompagni attraverso i sentieri diritti del deserto e quelli a volte più tortuosi dell’esistenza!
L’avventura fa nascere l’uomo
Di giorno, di notte una domanda sempre ci tormenta e ci inquieta: cosa fa nascere l’uomo?
La cronaca di questi giorni ci impone riflessioni sempre più radicali.
Leggiamo dei fantastici progressi della scienza. E’ stata completata la mappatura del codice genetico umano; ieri sono state clonate cellule embrionali di scimmia; la ricerca sulle cellule staminali ci fa apparire non lontano il giorno in cui sarà possibile clonare un uomo. Prosegue dunque a ritmo serrato questa corsa vertiginosa verso un punto sconvolgente del futuro in cui potrò vedere faccia a faccia un essere geneticamente identico a me stesso. Ad alcuni fa paura questa prospettiva, altri ne sono affascinati. Taluni ritengono che in tal modo la vita proseguirà per sempre, altri ritengono che questo rappresenterà la sua fine.
Ipotizziamo per un istante di essere già trasportati in avanti verso questo punto lontano del futuro e di trovarci di fronte a questo clone esatto di noi stessi, una copia identica fino nel nocciolo intimo della nostra cellula più insignificante. Qualcosa di più di un fratello, perchè esattamente come me, qualcosa di meno di un figlio, perchè, ancora una volta, esattamente come me. La specie in lui non si è evoluta. Io penso che lo guarderò negli occhi e avrò per lui simpatia. Mi sembrerà di conoscerlo e, almeno in parte, spero che mi piacerà, anche se nel fondo, credo, resterà per me un mistero. Che tipo di uomo sarà? La macchina, il corpo è uguale, identica alla mia, ma i suoi pensieri? I suoi sentimenti? La sua coscienza? Come potrà essere uguale a me se non ha vissuto le mie esperienze, se non ha provato quella brezza forte del mattino che ha spazzato via la pioggia della notte, se non ha acceso il fuoco quella sera che eravamo stanchi, se non ha portato lo zaino insieme ai miei amici quel giorno che il sole spaccava le pietre e la salita sembrava non dovere mai finire?
Come potrà anche solo assomigliarmi se non ha spinto il suo sguardo sull’orizzonte quel giorno che compresi, ad un tratto, che era là, oltre, più lontano che bisognava andare, che la mia battaglia sarebbe stata quella e non un altra. Mia madre mi ha messo al mondo ma poi è stata l’avventura che mi ha fatto nascere altre cento volte, il desiderio di assomigliare agli uomini di cui avevo conosciuto le imprese che hanno indirizzato i miei passi, alcune parole dette da chi amavo che hanno aperto e costruito la mia intelligenza.
L’uomo si rivela nell’azione e nasce in una dimensione di mistero che neppure la genetica può svelare. Per chi ha vissuto dei raids Goum il deserto, le grandi distese, il silenzio della notte hanno una forza generatrice di vita più intensa di centomila provette poiché suscitano in noi il coraggio e la volontà di vivere a testa alta, di guardare il nostro destino con la fiducia che hanno i bambini verso il loro padre e di guardare agli altri come fratelli molto amati.
L’avventura della vita ci rende unici, irripetibili, diversi da chiunque altro, persino quel’ “altro” che possa essere un nostro clone.
L’avventura Goum ci permette di condividere i passi del cammino che altri uomini e donne straordinari hanno compiuto prima di noi e questo ci unisce a chi ci ha preceduto e a chi verrà dopo di noi in una straordinaria catena umana di amicizia e solidarietà.