Lettera al mio candidato
Caro Candidato,
oggi è il giorno delle elezioni e io ho appena compiuto questo gesto semplice e al tempo stesso sacro che è scrivere il tuo nome sulla scheda e infilarla nell’urna.
Caro Candidato,
oggi è il giorno delle elezioni e io ho appena compiuto questo gesto semplice e al tempo stesso sacro che è scrivere il tuo nome sulla scheda e infilarla nell’urna.
Semplifico: tutto ciò che mi importa di sapere, in definitiva, è solo se sono coraggioso.
Dopo le parole, i ragionamenti, l’autocoscienza, la meditazione trascendentale, gli alibi e i pretesti ciò che mi rivelerà, ciò che dirà chi sono (un pavido o un audace?) sarà l’azione.
La filosofia, la scienza, il diritto, l’etica, la letteratura sono amici, talvolta fin troppo zelanti, che ci accompagnano per strada, che ci parlano, ci sussurrano, ci incoraggiano – appoggiati sul loro bastone di vecchi – ad avanzare o ad essere prudenti. Quanti bei consigli! Avranno ragione? Avranno torto? A volte vorrei che parlassero con parole più chiare e con voce più forte. Quanti giochi di parole, distinzioni sottili, messaggi oscuri per gente iniziata. Ma la verità, la verità nel suo splendore, questo sole di mezzogiorno, ebbene la verità è solo l’azione che la grida. A gambe larghe, in mezzo alla piazza, ridendo e spingendo, ruggendo e smanacciando, come se non ci fosse altro che lei, come se non ci fossero altre ragioni. Ed infatti altre ragioni non ci sono. L’uomo si rivela nell’azione. Poco importa che vinca o che perda. Il successo o l’insuccesso sono fatti contingenti, a volte fortuiti, che non rivelano fino in fondo la natura di un uomo. Quello che conta (la perseveranza, la generosità, il disinteresse, la curiosità, l’immaginazione, l’abilità, la decisione…) sono qualità che possono appartenere allo sconfitto come al vittorioso.
Germogli
Domanda prima: che cosa è che “fa” l’uomo, che decide nella sua esistenza, che ne fa un santo o un assassino, un burocrate o un esploratore?
Fratelli gemelli, formatisi nelle stesse viscere, nutriti allo stesso seno, cresciuti con i medesimi precetti diventano l’uno un corsaro degli oceani l’altro un droghiere di campagna. Cosa ha fatto la differenza? L’uomo è programmabile? Se introducessimo qualche sostanza chimica nell’embrione che si agita nella provetta potremmo trasformare un uomo-coniglio in un uomo-leone? Se applicassimo con il massimo rigore – non solo a livello di massa ma anche individuale – i programmi di rieducazione predisposti da un apposito Ministero della Cultura Popolare potremmo condizionare gli atteggiamenti mentali, esistenziali, sentimentali dei nostri concittadini? Potremmo radunarli in grandi città, come topi in un’enorme scatola, farli ballare un po’, contenere, prevenire o persino sradicare il dissenso, garantire l’ordine, la spontanea obbedienza, il conformarsi (semi) volontario alla volontà di un’autorità regolatrice suprema? Oppure ci sarà sempre, nonostante tutti gli sforzi, qualche ribelle, qualche rompiscatole che non si adatta, che non ci sta, che cerca di infilare grani di sabbia negli oliati ingranaggi di queste immense macchine sociali destinate a preservare il mondo da conflitti potenzialmente dirompenti? Perchè ogni mille uomini che vanno nella stessa direzione ce n’è sempre uno che cerca di andare controcorrente? Come si producono i ribelli, i Tommaso Moro, le Aquile Randagie?
Risposta alla domanda prima: l’uomo è davvero uno strano animale. Per quanto si cerchi di addestrarlo, renderlo mansueto, sterilizzarlo c’è sempre il rischio che alla fine faccia qualcosa di testa sua, di imprevedibile, di inatteso. Magari sta trent’anni ingiustamente in una prigione e quando esce diventa Presidente e parla di riconciliazione. Vedi alla voce Sud Africa, Nelson Mandela.
Poi c’è il problema del contagio: un semplice gesto di coraggio vale più di cento ore di indottrinamento sull’importanza del rispetto e del timore reverenziale. L’anonimo studente di Piazza Tienammen, Jan Palach, Padre Kolbe, Salvo d’Acquisto: gente di questo tipo è capace di far passare una scossa elettrica nella schiena dell’umanità intera. Ed improvvisamente, quando ormai più non te lo aspetti, trovi ancora gente che rialza la testa, fissa negli occhi, lancia una sfida.
Io vorrei essere di quelli.
Uguaglianze
Domanda seconda: Siamo uguali? Siamo diversi? Cosa fa la differenza tra gli uomini? I capelli biondi anziché bruni? Il colore della pelle anziché degli occhi? Essere nato ricco o poveraccio? Venerare Che Guevara o Santa Teresina del Bambin Gesù? Scusate, ma sono dettagli. Tanto più oggi che non ci facciamo problemi a definirci al tempo stesso italiani, cittadini europei, cristiani, vegetariani, tifosi del Milan (a parte il nostro Direttore che è interista), scout dell’agesci, pacifisti, bird watcher, appassionati di jazz, giuristi e astrologi.
Ognuna di queste caratteristiche potrebbe definire la nostra identità, oppure farlo tutte insieme sia pur sapendo che alcune di esse potrebbero anche cambiare nel tempo. Dunque la cultura incide sulla nostra identità? Quanto conta l’idea che noi abbiamo di noi stessi? Quanto conta l’idea che ne hanno gli altri? Quanto pesa il gruppo sociale a cui apparteniamo? Possiamo parlare di identità al di fuori di un contesto sociale? Robinson Crusoe sulla sua isoletta si poneva il problema della propria identità o il dubbio gli è nato solo il giorno in cui è arrivato Venerdì (“questo tizio è diverso da me, io sono diverso da lui”)? Certo le differenze sono importanti, la cultura è importante, la civiltà è importante. Ma alla fin fine, cercando il succo del succo di questo discorso, quando è scesa la notte entrambi avevano freddo, entrambi provavano la stessa fame, la stessa nostalgia delle persone amate, entrambi forse hanno avuto la stessa paura. Durante la prima Guerra Mondiale, sul fronte, nel fango della trincea, soldati di eserciti contrapposti, dimentichi delle sbornie ideologiche, della propaganda e persino delle punte delle baionette che attendevano i disertori hanno fraternizzato fra di loro scoprendosi nella sofferenza più simili che diversi, più amici che nemici.
Risposta alla domanda seconda: le differenze culturali sono la ricchezza dell’umanità ma se ci mettiamo alla ricerca dell’essenziale dobbiamo convenire che gli tutti gli uomini devono dare delle risposte alle medesime domande. In questa ricerca la cultura talvolta conta assai poco. Padre Cristoforo e Don Abbondio erano entrambi due preti cattolici e abitavano in Lombardia ma erano fatti di una pasta diversa. La natura degli uomini si rivela nell’azione. Qualunque sia il colore della pelle o la lingua che parla. Se fuggo davanti al nemico, se tradisco i compagni sarò considerato un vile e un codardo in Perù come in Cina, in Svezia come in Ciad. Il coraggio, la generosità, la nobiltà d’animo sono valori universali.
Cambiamenti
Domanda terza: l’uomo può cambiare? Può un vigliacco divenire coraggioso? La scienza ci spiega che alcune caratteristiche identitarie vengono acquisite per sempre fin dal terzo anno di età. Dopodiché sembrerebbe che non ci sia più niente da fare.
Jorge Luis Borges (che ha saputo raccontare anche quello che la scienza non sa ancora immaginare) riferisce della vita di Pedro Damian, un giovane gaucho argentino che aveva combattuto a Masoller nel 1904 contro gli Uruguaiani. Dopo alcune sparatorie “in cui si era comportato da uomo” se la diede a gambe rendendosi conto che cinquemila uomini si erano coalizzati per ucciderlo. Tornato a casa vive il resto della sua vita nel rimorso e nella vergogna. Semplice tosatore di pecore rivive mille volte nel cuore e nella mente gli attimi della battaglia che avevano rivelato la sua natura di codardo. Non accetta la definitività di quella sentenza. Implora il destino o il buon Dio di concedergli una seconda occasione, trascorre la vita nel tentativo di correggere dentro di sé quella vergognosa debolezza. A distanza di quarant’anni, nell’ora della morte rivive ancora una volta la battaglia. Nel delirio ritrova la polvere degli spari, la furia dei cavalli, raccoglie la bandiera e avanza di corsa senza tremare verso cinquemila lance che puntano al suo petto. Questa morte coraggiosa ottiene l’effetto miracoloso di cambiare a ritroso la storia. Nessuno più ricorderà il vecchio pastore codardo Pedro Damian ma tutti, persino i compagni d’arme, ricorderanno il coraggioso gaucho Pedro Damian, morto a vent’anni nella carica di Masoller.
Se miracoli di questo genere fossero per tutti, ritengo che molti di noi ne approfitterebbero per cambiare alcuni fatti del passato in cui non ci siamo comportati come avremmo voluto.
Ahimè il passato è passato e più non torna. Il futuro però è tutto nostro e non vedo ragioni per le quali anche chi si è dimostrato codardo, egoista, superficiale non possa provare di essere coraggioso, generoso, profondo. La vita è un campo immenso di possibilità e io credo fermamente nella possibilità che gli uomini, tutti gli uomini hanno di cambiare (in meglio e – purtroppo – qualche volta anche in peggio).
Solo, con lo zaino sulle spalle, risalgo il sentiero della Val Codera. Qui tutto mi parla di uomini coraggiosi, audaci, di gente che ha vissuto grandi ideali, negli occhi la purezza del cielo. Solo, nel deserto, mi incammino verso un lontanissimo arbusto che forse tra un’ora mi regalerà un po’ di frescura. Ho caldo, mi sento disidratato. Un compagno di strada mi passa una borraccia. Questi, luoghi, questi gesti, questi incontri mutano qualcosa di profondo in me. Ripenso ad alcuni fatti centrali della mia vita scout, al giorno in cui feci la Promessa, al mio primo Hike, a quando diedi la Partenza ai miei Rover…
Ripenso a uomini e a donne che con la loro testimonianza hanno segnato non solo il mio cammino ma anche il modo con il quale penso a me stesso, al mio compito su questa terra, al mio destino. Senza di loro sarei una persona diversa e, non ho paura di dirlo, sicuramente peggiore. L’educazione ci cambia, l’amore ci cambia, la vita ci cambia. Ma non in superficie, bensì nel profondo. Anche la morte ci cambia, quella dei nostri amici, delle persone a cui vogliamo bene. Lascia in noi un segno non rimarginabile: una ferita da cui far nascere nuovi germogli o un solco in cui rinchiuderci per sempre. La nostra morte ci cambia: il suo pensiero, la sua ineluttabilità ci costringe a considerare che tipo di uomini vogliamo diventare. E se quel gran giorno, avessimo anche gli occhi pieni di lacrime, sapremo stare diritti e sorridere e portare un cesto pieno di azioni nobili e generose (insieme forse anche a qualche cosa che non vorremmo tra i nostri frutti), allora si potrà dire abbiamo vissuto bene e che la nostra vita è stata quella di uomini coraggiosi. E se anche la nostra pasta fosse più quella di Don Abbondio che di Padre Cristoforo ricordiamoci delle parole di Santa Teresa di Lisieux (che anche Che Guevara avrebbe fatto volentieri proprie): “Non importa se avete coraggio, basta che vi comportiate come se ne aveste”. In definitiva, è solo questo ciò di cui m’ importa.
Ciao piccola Aurora,
perdonami se questa lettera ti apparirà incerta e un po’ confusa. Mi trovo a scriverti in uno spazio ristretto con un mozzicone di matita che avevo nascosto nella scarpa destra. La carta è quella che è… un vecchio giornale ingiallito che ho trovato in parlatoio. Leggo a fatica la data sul bordo: 22 novembre 2011. Sembra passato un secolo (in realtà molto meno). A quell’epoca, ti sembrerà strano, ogni mattina ci si recava, prima di andare a lavorare, ad un’edicola, dove erano impilate colonne di giornali dalle testate più fantasiose: la Gazzetta, Il Fatto, il Foglio, il Sole, La Voce… C’era un Corriere che si chiamava “della sera” ma usciva la mattina e nessuno si domandava il perché. Quella piccola stranezza cominciava ad abituarci al fatto che non sempre ciò che leggevamo sui giornali corrispondeva alla verità. Ricordo che mi piaceva sostare davanti all’edicola, guardare di soppiatto i titoli cubitali che davano le notizie. Quando pioveva l’edicolante stendeva un foglio di plastica trasparente per proteggere i fogli. Era un gesto commuovente e pieno di tenerezza: sembrava una mamma che stende la coperta sui figli quando fanno la nanna. Mi piaceva guardare i giornali, sentire l’odore della carta, stupirmi dell’inventiva dei cronisti che sapevano presentare fatti apparentemente insulsi come novità straordinarie. A quel tempo, non ci crederai, c’era una moltitudine di partiti, di fazioni, di tifoserie. Inizialmente ciascuna promuoveva una diversa idea del futuro e della società contrapponendosi all’idea degli altri. Poi le idee sul futuro andarono svaporandosi e rimase solo la contrapposizione, la polemica, persino l’insulto. I giornali che dovevano portare le notizie divennero strumenti per canalizzare esclusivamente le opinioni. Fu quello il momento in cui cambiarono le cose: dapprima i commenti degli opinionisti servivano ad illustrare i fatti, consentivano di comprenderli nella loro giusta prospettiva. Il commento era al servizio della notizia. Poi, poco a poco, avvenne un capovolgimento: furono le notizie ad essere utilizzate a sostegno del commento. Quelle utili per dimostrare una certa tesi venivano selezionate, enfatizzate, imbellettate; quelle che utili non erano venivano scartate, nascoste, persino negate. La cosa inizialmente appariva evidente e quasi divertente: sembrava un gioco, come il nascondino: mostrare, nascondere: tutto era lecito pur di fare tana. Poi, dopo un po’, nessuno riuscì a distinguere quando si trattava di un gioco e quando no. La manipolazione dei fatti divenne una pratica consueta, abituale, sistematica. La pretesa di alcuni di sostenere che un fatto era vero e che un altro era falso venne guardata con sospetto e con crescente insofferenza. Chi erano costoro per pretendere di conoscere l’esattezza dei fatti? Con quale arroganza essi intendevano imporre la loro verità a quella degli altri?Anche i migliori tra i cittadini furono presi dal fastidio per tutto ciò che non veniva accompagnato dal dubbio, dalla sospensione del giudizio, da una prudente relativizzazione. La maggior parte però era indifferente, la verità di un principio stando sempre più nella utilità pratica che ciascuno sperava di ricavarne.
Avvenne poi che non ci furono più le parole per dirlo, perchè quelle che una volta avevano un significato poco per volta lo avevano perduto ed era stato loro attribuito uno diverso, imbastardito, a volte persino opposto. Si gridava “giustizia giusta!” ma ciò significava intimidazione, si invocava “libertà” ma si intendeva “impunità”. Si diceva “pace” ma si intendeva guerra preventiva. Il linguaggio , la parola erano traditi e così la verità che essi esprimevano.
Quando ero piccolo mi alzavo presto la mattina e andavo al mare per guardare sorgere il sole. La sua forza si sprigionava inizialmente con una lunga striscia rossa all’orizzonte che spingeva più in là la notte nel remoto universo. Ho sempre temuto l’oscurità e attendevo l’apparire del disco d’oro come la manifestazione di un salvatore. Il sole giallo sorgeva e dissolveva le mie paure. Lo contemplavo fino a quando la sua luce diveniva così forte da dover abbassare lo sguardo. Tornavo allora a casa tutto contento, fischiettando e saltando con un piede di qua e uno di là. Man mano che crescevo quel sole era stato sostituito da alcune parole maestre che avevo appreso al catechismo: “Non dire falsa testimonianza”. C’erano state poi le parole che il mio Capo Reparto ripeteva quando giocavamo a scalpo: “Lo scout è leale”. Esse guidavano e indirizzavano i miei passi. Non pretendevo di conoscere la verità così come non riuscivo a guardare il sole con gli occhi ma cercavo la sua luce.
Vedi carissima Aurora, quei giorni divennero ad un tratto lontani. Ho già detto di come ciò avvenne a poco a poco, senza che forse ce ne accorgessimo. Era come se una nebbia avesse avvolto la città. La luce del sole era persa, le figure divenute grigie e spesso indistinte. Cominciai a svegliarmi la notte di soprassalto preso da cattivi pensieri. La luce si era ammalata, la verità si era ammalata. Nessuno più credeva né all’una né all’altra. Parlavo con le persone, anche le più amate e le loro parole sembravano incerte, le frasi monche, i veri pensieri altrove. La verità delle nostre relazioni, dei nostri sentimenti mi sembrò ad un tratto dubbia, la fiducia mal riposta, ogni certezza infranta. Mi sembrava di camminare in una zona remota della città, piena di ombre minacciose, di cupe ciminiere, su enormi tapis roulant privi di sostegno, come dei sottili ponti tibetani che affondavano e rimbalzavano tra le sponde avvolte dalla nebbia. La verità si è ammalata, dicevo tra me e con essa si è ammalata l’amicizia, la speranza, la rabbia, l’amore…
Il Nuovo Governo non sembrava preoccupato anzi ebbi fin dall’inizio l’impressione che in qualche modo incentivasse questo sentimento di disorientamento. Molte iniziative vennero avviate per suggerire che la verità scientifica fosse controvertibile, quella morale opinabile, quella fisica subordinata all’imperfezione degli strumenti di misurazione, quella teologica frutto della fantasia distorta di eremiti medievali. Ovviamente per placare il sentimento di ansia collettiva che si diffuse vennero escogitati molti giochi e divertimenti. Vennero allestite discoteche sempre più grandi dove ascoltare musica sincopata e ballare fino allo sfinimento. Piccole pastiglie di extasy accompagnavano le notti insonni colorandole di immagini allucinate. L’attività sessuale era fortemente incoraggiata purché promiscua e svincolata da ogni relazione sentimentale. Dapprima essa era consentita solo ai giovani ma poi, grazie all’invenzione del Viagra, anche gli incanutiti poterono dedicarcisi dimenticando ogni diversa cura e preoccupazione. I giornali vennero poco a poco sostituiti da grandi schermi multicolori che distillavano notizie brevi, sempre più brevi, a volte anche semplici righe. Tutto doveva essere semplice, elementare. Ogni piazza, ogni strada, ogni vetrina di negozio rinviava e rimbalzava le immagini di questi schermi, a volte persino nei mezzanini delle metropolitane. L’interesse della gente veniva convogliato soprattutto su eventi che non avevano alcuna importanza per la loro vita reale: spettacoli di sport, di cinema, le previsioni del tempo… La gente veniva educata a vivere una vita di riflesso a disinteressarsi della propria esistenza e dedicarsi esclusivamente a quella di alcuni noti personaggi che in pratica vivevano al loro posto. Che poi l’esistenza di questi ultimi fosse reale non si può sicuramente dire. Come le divinità greche di un tempo essi vivevano in un Olimpo distante, passando le giornate in ozi e pettegolezzi. La loro forma estetica era perfetta, opera non certo di madre natura ma del bisturi, della liposuzione, del botulino e in qualche caso del photoshop. Divinità perfette e incorruttibili essi si affacciavano sul mondo dalle pagine dei rotocalchi e degli spot televisivi. Nessuno li ha mai incontrati dal vivo: dicono che la maggior parte di essi fosse solo un’invenzione della pubblicità e del Nuovo Governo ma questo noi non potremo mai con esattezza saperlo. Era forse tutto un sogno? Ma qual è la differenza tra la vita e il sogno, tra il reale e il virtuale? Tra il vero e il falso?
Aurora, il tempo stringe e devo giungere alla conclusione che forse già sai. La luce della luna entra stretta tra le sbarre che chiudono la finestra di questa Prigione. Ti avranno detto di come alcuni di noi si ribellarono, di come tentammo di persuadere i nostri concittadini dell’errore in cui stavano cadendo. Lessi su un libro questa frase “nel tempo dell’inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario” (la Fattoria degli animali, di George Orwell). Misi tutta la mia passione, la mia eloquenza, la mia forza d’animo per dimostrare che la realtà esiste, che la verità esiste, che la vita esiste. Ma vedi, quando la verità viene cancellata anche la menzogna è cancellata. Ciò che è falso diventa vero. Qualunque cosa può essere detta, anche la più assurda e insensata e nessuno può contestare che essa sia tanto vera (o tanto falsa – perchè ormai è lo stesso) quanto le altre cose che conosciamo. E non ci sono più cause giuste o ingiuste né tantomeno ragioni per lottare, per ribellarsi, per preparare una rivoluzione. Tutto questo il Nuovo Governo lo sapeva e lo approvava.
Fummo dapprima derisi, poi denigrati. Fummo quindi arrestati e interrogati. Vennero i dottori, gli psichiatri e altri intellettuali che non ricordo. Accesero le loro lampade frontali e ci esaminarono da vicino. Ci parlarono della realtà e dell’illusione, ci spiegarono che il bianco era nero, che la guerra è pace, che la paura è coraggio, che la vendetta è amore… La verità è liquida argomentarono, non c’è distinzione tra sogno e allucinazione. Sognate, dunque, sognate… Ci chiesero sorridendo di aderire alla nuova Consapevolezza. La maggior parte di noi si lasciò convertire, chiese perdono. Venne quindi riammessa nel consorzio dei Nuovi Cittadini previa pubblica declamazione della formula penitenziale di rito:
2 + 2 = 5.
Il Nuovo Governo si mostrò clemente e lasciò che essi circolassero liberamente sia pure sotto la sorveglianza di telecamere a circuito chiuso.
I pochi che non si piegarono vennero rinchiusi nelle segrete della Prigione. Sono trascorsi ormai molti anni e nessuno si ricorda di noi. Non saremo dunque eroi, non saremo martiri. Del nostro sacrificio nessuno verrà mai a sapere. Ad uno ad uno veniamo fatti sparire per sempre. In silenzio. Il Guardiano mi ha detto che il Nuovo Governo ha deciso il mio turno per l’alba prossima che viene. Guardo fuori dalla finestra e per l’ultima volta vedo il sole rosso che sorge. Sento i passi dei secondini che mi vengono a prendere.
Mia piccola Aurora, bambina che ancora non sei nata e che forse un giorno verrai. Figlia dei miei figli che mi hanno ormai dimenticato. Lascio a te questa lettera nascosta sotto una pietra del pavimento, come un messaggio in una bottiglia. Sperando contro ogni speranza spero che un giorno pervenga nelle tue mani.
Aurora: viene per me la morte a passi certi nel corridoio, gira la sua chiave nella serratura della mia cella. Viene per me la morte a scrivere la parola fine e non ci sarà ancora un domani. Eppure sono grato a questi uomini che mi trascinano via nelle loro divise grigie. Voi fratelli sconosciuti , volti anonimi che non conosco e che già caricate il fucile. Voi mi aiutate a ristabilire il confine: tra ciò che c’è e ciò che fra poco non sarà più. Nel sancirne la fine date realtà definitiva alla mia esistenza. Ancora per poco ma io oggi sono, sono, sono! Questa è la mia verità e non potete togliermela.
E tu piccola Aurora, desiderio di un nuovo sole che sorge, di una vita che continua, sii felice ed ogni volta che puoi sii innamorata. Non sprecare la tua vita in piccole bugie, giochetti, tradimenti. Alla fin fine tradiresti, perderesti solo te stessa. Quando puoi vai sulla riva del mare e guarda il cielo quando c’è il sole che sorge. C’è un momento preciso quando la notte si trasforma in giorno, è un momento perfetto, non ha inganno, porta il tuo nome: Aurora.
Bibliografia
Graham Green, L’ultima parola e altri racconti, Oscar Mondadori
Aldous Huxley, Il Nuovo Mondo, Oscar Mondadori
George Orwell, 1948, Oscar Mondadori
Ray Bradbury, Fahrenheit 451, Oscar Mondadori
Anna Arendt, La menzogna in politica, ed. Marietti
Filmografia
Brasil, diretto da Terry Gilliam, UK, 1985, con Robert De Niro e Jonathan Pryce
I figli degli uomini, diretto da Alfonso Cuaron, UK, 2006, con Clive Owen, Julianne Moore, Michael Caine.
Il prigioniero prega assorto nella piccola cella del carcere di Flossenbürg. E’ già notte fonda ma la Corte Marziale poco distante lavora alacremente. Bisogna fare presto. L’elenco dei cospiratori che non devono assolutamente sopravvivere è quasi pronto. Tra loro Wilhelm Canaris il brillante Ammiraglio della Abwehr che ha osato opporsi a Hitler meditandone più volte l’attentato. Assieme a lui i suoi complici: Oster, Strunk, Gehre, von Dohnanyi ed infine quello strano ma straordinariamente simpatico pastore luterano: Dietrich Bonhoeffer. Fuori tutto ormai crolla a pezzi: è l’8 aprile del 1945. Le truppe sovietiche si avvicinano a grandi passi a Berlino cercando di giungervi prima di quelle angloamericane. La sorte del regime nazista è ormai segnata: è questione di poche settimane, forse addirittura giorni. Molti pensano solo a mettersi in salvo. Altri no: prima bisogna eliminare quegli uomini. Forse non è odio ma solo burocrazia. Più tardi qualcuno scriverà che la malvagità può essere banale.
Il prigioniero accarezza tra le mani i libri che tanto ha amato: Goethe, la Bibbia, Plutarco. Sa bene che ormai è tutto finito, che le speranze degli ultimi giorni non sono state che un ultimo, tragico disinganno, che domani mattina lo verranno a prendere.
Si sorprende, quasi, di non provare disperazione. Anzi un sorriso benevolo si fissa impercettibilmente sul lato destro del viso. Il pensiero corre ai giorni felici dei viaggi in Italia, lo stupore e l’ammirazione per l’architettura di Roma e Venezia, e poi le conferenze a Londra, Oxford, New York, Stoccolma. Erano i giorni del successo, i giorni dell’amicizia fedele, della libera docenza in teologia, della pubblicazione dei suoi libri: “Sequela”, “La vita in comune”, “Creazione e Caduta – l’ora della tentazione”. Già l’ora della tentazione: anche Cristo ha vissuto qualcosa di simile: un processo sommario, una condanna già scritta, una notte di veglia in attesa dell’esecuzione. La tentazione è quella di odiare questa gente, questi volti anonimi di individui che tra la resistenza e l’arrendersi hanno scelto la resa. Sì, la responsabilità del disastro grava su costoro forse ancor di più che su coloro che lo hanno causato. La responsabilità di chi ha taciuto, di chi ha voltato lo sguardo, chiuso il cuore, serrate le mani, di chi ha lasciato, senza opporsi, che gli altri facessero. La tentazione è di detestarli per la loro debolezza e mediocrità. Ma anche cedere all’odio in questa ultima notte sarebbe una resa. Tornano alla mente le parole di una poesia scritta tanto tempo prima: “Tu che punisci i peccati e perdoni volentieri, Dio questo popolo io l’ho amato. Aver portato la sua vergogna e i suoi vizi, e aver scorto la sua salvezza: questo mi basta”. Sì, questo forse basta. Forse un giorno questo Paese: la Germania, questo continente: l’Europa intera, ecco forse sì, un giorno risorgeranno dal buio sozzo nel quale sono precipitati. Gli uomini che sopravvivranno cercheranno i nomi di chi ha saputo resistere. Più importanti dell’aria, più importanti della luce, più importanti della speranza. I nomi di coloro che non si piegarono, maestri e testimoni di coraggio. Un popolo, una civiltà non può tornare a vivere se oggi non c’è chi sia capace di morire per la libertà e la giustizia. E più di ogni altra cosa sappia morire senza odiare. “Dio, questo popolo io l’ho amato, io l’ho amato, io l’ho amato” ripete Dietrich dentro di sé come in una ninna nanna.
Improvvisamente una domanda che ghiaccia il cuore: “Ma tu Dio, Dio degli eserciti, Dio della vittoria, della giustizia, degli umili e degli oppressi: tu Dio, in quest’ora tragica della mia vita, rispondimi: dove sei? Dove ti sei nascosto? Perché non vieni a salvarci? Scendi dalle tue nubi, stendi il tuo braccio potente, disperdi questi malvagi, salvaci dalla corrente! Dio rispondimi: dove sei?”. Dietrich rimane a lungo in silenzio. Solo l’eco di alcuni passi di altri prigionieri inquieti. Una pallida luce che non conosce ancora i colori della primavera comincia ad annunciare l’alba. La Corte Marziale ha senz’altro già completato la sentenza. Lucidi stivali di pelle si fanno strada tra il labirinto dei corridoi di Flossenbürg diretti a quella cella. Fra poco una mano aprirà quella porta e leggerà quell’ordinanza di morte. E poi un pensiero, una luce: “Dio mio perdonami, come ho potuto anche solo per un istante dimenticare e dubitare. Quando l’uomo soffre ed è messo sulla croce io so dove trovarti. Sei anche tu sulla croce, debole ed esausto a condividere questa nostra sofferenza”.
Due giri di chiave nella porta che viene spalancata con violenza; un gendarme grida rauco e furibondo: “Prigioniero Bonhoeffer, prepararsi e venir via!”. Dietrich sorride e gli risponde: “E’ la fine. Per me l’inizio della vita”.
Nota bio-bibliografica
D. Bonhoeffer venne impiccato, nudo, il 9 aprile del 1945. Non aveva quarant’anni. Il 23 aprile le truppe americane liberarono Flossenbürg. Era stato arrestato due anni prima per la sua partecipazione attiva alla resistenza tedesca. Era appena rientrato volontariamente dagli Stati Uniti dove, se solo avesse voluto, avrebbe potuto salvarsi. Egli riteneva che la resistenza non dovesse essere solo morale ma realizzarsi nell’azione. Pastore e teologo ha profondamente rinnovato con i suoi scritti la riflessione sul ruolo del cristiano in un tempo secolarizzato, auspicando che l’impegno etico diventasse politico. La debolezza di Dio, le fedeltà alla terra e la responsabilità dell’uomo sono i temi dominanti di “Resistenza e Resa” (ed. Paoline) raccolta di lettere agli amici scritte dal carcere.
(Riflessioni a batticuore sul ruolo dei capi scout
nell’educazione ad una esigente vita interiore)
Basta con lo spirito da “ultimo banco in fondo alla chiesa”, da devoti dell’acqua santiera così come da eterne pecore perdute. E’ talvolta sconfortante constatare con quanta abilità ci si mimetizza dietro mille alibi, scuse, pretesti che hanno come unico esito la rinuncia a misurarsi con le pagine impegnative del Vangelo. Vi è da questo punto di vista un tratto comune tra l’atteggiamento clericale dei pii e devoti che annuiscono sorridendo seraficamente alla omelia del prevosto (e mai si darebbero da fare per esprimere un pensiero personale ed originale) e l’atteggiamento di coloro che sono perennemente in crisi, dei ribelli senza rivoluzione, dei dubbiosi per principio, dei critici feroci indulgenti solo verso se stessi. Il tratto comune è quello di una sostanziale pigrizia che porta ad eludere le domande di fondo e a non cercarne le risposte. La vita personale e la vita scout escono inaridite da questi atteggiamenti.
L’annuncio della Buona Novella non è prerogativa esclusiva degli assistenti ecclesiastici.
Un ruolo centrale può e deve essere rivestito dai laici, intendendo con questa espressione i Capi e gli stessi ragazzi. Come per ogni altra dimensione della vita scout anche quella della evangelizzazione e della ricerca spirituale comporta una chiamata per tutti a giocare un ruolo da protagonisti.
Il punto è che, pur con il massimo rispetto per la scienza teologica, la biblistica, la patristica, la moralistica ed in genere le varie scienze da seminario, i Vangeli sono stati scritti da gente semplice innanzitutto per altra gente semplice (come i Capi scout, appunto). Non c’è pagina di Matteo, di Marco o di Luca che non possa essere compresa da chi abbia superato anche con solo modesto profitto la terza elementare. Ne sono prova le riflessioni dense di luce che ascoltiamo a volte da noi nostri lupetti e dalle nostre coccinelle.
La cronica mancanza di assistenti ecclesiastici nei nostri gruppi scout, per quanto deprecabile, non può divenire pretesto per disertare un compito che riguarda tutti, mi verrebbe da dire: persino coloro che non si sentono cristiani: quello di cercare il senso dell’esistere e le ragioni di sperare nelle pagine millenarie che raccontano la vicenda di un uomo buono condannato a morte e che seppe parlare della vita anche ai ladroni .
Il punto sul quale è necessario interrogarsi è infatti proprio questo: che tipo di proposta può fare un Capo se dal suo orizzonte (vale a dire dalle sue parole, dai suoi comportamenti, dalle sue proposte, dal suo stile di vita) manca la dimensione spirituale? Che tipo di uomini e donne potrà suscitare? A che tipo di ragazzi saprà parlare?
Le attività scout hanno evidentemente una loro ricchezza e validità a prescindere dalla dimensione spirituale: fare i nodi, giocare a scalpo, discendere un fiume in canoa…. Tutte cose belle e divertenti. Attività di svago e intrattenimento potremo dire, certamente sane, moralmente positive …… Ma totalmente inadeguate a spiegare le ragioni dell’esistere, il perché della gioia e della sofferenza, la ricerca del vero, della bellezza, di chi sono e di dove sto andando. In altre parole di parlare di quelle cose per le quali un ragazzo e una ragazza possono accettare di escludere l’opzione dell’assurdo, del nulla, dell’autoannientamento e decidere per l’impegno, per il dono, la lotta, l’amore.
La vita infatti è tutto questo e a vent’anni lo sentiamo forse con più forza e intensità che in ogni altro momento della nostra esistenza. Forse perché siamo sull’orlo di scelte che ci possono compromettere, forse perché vivere e morire sembrano a volte i due lati della stessa medaglia, forse perché facendo il bene sentiamo che basterebbe poco perché compissimo anche il male. Forse perché è tutto così fragile, incerto, una leggera brezza di vento sulla cresta che ci fa decidere di scendere dal versante nord della montagna anziché di quello a sud. Forse perché è tutto così complicato e al tempo stesso maledettamente semplice che abbiamo bisogno di parole che non siano soltanto convenzioni, propaganda, messaggi scritti sull’acqua….
Forse è per questo che abbiamo bisogno di un uomo, una donna, di un Capo scout che non ci vogliano irreggimentare, fare predicozzi, riportarci all’ovile, ma parlare di ciò che sentiamo mettendo in discussione anche loro stessi, parlando di questi problemi che hanno vissuto sulla pelle e non soltanto tra le righe di libri ingialliti.
E di cosa parlare se non del senso radicale, del perché ultimo, di cosa è successo a questo nostro amico che è morto a vent’anni, che senso hanno la violenza, il sesso, la preghiera, l’amore di una donna, il pianto dei bambini, il silenzio del deserto, il perdono, il senso del peccato, il miracolo di una vita nuova?
Di questo vale la pena parlare, di questo vale la pena provare a mettere in pratica qualcosa. Se non è a vent’anni che si può lasciare tutte le ricchezze per quella sola perla che è il Regno dei Cieli quando mai ne avremo il coraggio? Se non è in Clan che sapremo tagliare in due il nostro mantello per darlo ai poveri quando mai ne avremo l’audacia? Se non è lungo la route che sapremo guardare le stelle come se fossero amiche di sempre quando mai avremo uno sguardo altrettanto puro?
E a che serve uno scoutismo che non sappia parlare delle scelte di fondo, delle ragioni per cui vale la pena di battersi, delle cause per cui donare l’esistenza intera?
E’ tutto così semplice nello scoutismo: la strada, il fuoco, l’amicizia, l’acqua di una fontana ed ecco: anche il canto lieve di una preghiera sussurrata, la consapevolezza di condividere il Mistero che abita nel profondo la vita di ciascuno di noi.
Tutto questo discorso intende dire che la vita scout rischia di essere monca se non è costantemente aperta su questo Mistero, su questa prospettiva di lungo percorso.
La testimonianza di un laico, di un Capo e una Capo assume un valore che, ritengo, può diventare ancora più importante e decisiva di quella di un sacerdote. Quest’ultimo ha come dimensione esclusiva (alla quale i laici non possono accedere) quella della celebrazione dei sacramenti (in particolare della Comunione e della Riconciliazione). Ma la testimonianza dei laici, ancorché giovani e inesperti, ancorché in crisi e in cammino, può avere una forza di trascinamento senza pari. Infatti, proprio a causa di questa difficoltà, proprio per la lotta che ciascuno di essi (di noi) è chiamato a condurre nella propria vita essa diventa più credibile.
Certo, questo fatto esige un impegno e una serietà di intenti non da poco: la nostra vita personale deve essere all’altezza o perlomeno tendere con tutte le sue forze a questa credibilità: Capi rassegnati, impigriti, ingobbiti, incancreniti sulle proprie carenze e difficoltà non hanno nessuna possibilità di aprire alla speranza il cuore dei propri ragazzi. Questo genere di persone trascinano nella loro sconfitta anche coloro che dovrebbero guidare verso la felicità e il successo (secondo la definizione di B.-P. delle finalità dello scoutismo) e sono solo condottieri di vergogna. Non si può essere veramente Capi scout se non si desidera il bene dei propri ragazzi e non si può desiderare veramente la felicità per loro se non siamo desiderosi e disponibili a volerla anche per noi e a batterci per essa. Dunque un impegno è necessario. Una ricerca di qualità della propria vita spirituale è la condizione preliminare per una ricerca di qualità della proposta educativa che rivolgiamo ai ragazzi.
Grande è la responsabilità che ciascuno di noi porta verso di essi. Grande è la possibilità di dare un significato alto alla nostra esistenza nell’’impegnarci a favore di essi: vale a dire a suscitare in essi quella fiamma che ardeva nel petto ai due discepoli di Emmaus, e che li spinse a riprendere il cammino prima ancora che spuntasse l’aurora.
Secondo la definizione del Dizionario della Lingua Italiana Devoto Oli il significato della parola “indignazione” é quello di “risolutaribellione a quanto offende la dignità propria o degli altri”. Approvo questa definizione e anzi sento nei suoi confronti una spiccata simpatia. I motivi sono molteplici. Innanzitutto mi piace questa idea della ribellione che immagino come una forza profonda, nascosta, quasi dormiente nelle viscere dell’anima, che forse neppure sappiamo di possedere ma che un giorno, quando viene provocata da qualcosa che non è più sopportabile, è capace di risvegliarsi all’improvviso, di alzarsi e di mandare tutto all’aria.
E’ vero, purtroppo, che la nostra organizzazione sociale è in larga misura strutturata per favorire il conformismo, il seguire la corrente, persino la rassegnazione. Mi risuonano nelle orecchie parole già sentite: “Abbiamo le mani legate!”, “Tanto non cambia nulla!”, “Che ci vuoi fare?!”, “Vivi e lascia vivere”. Parole, frasi, pensieri che cospirano per farci accettare in modo fatalista quel che pare ineluttabile. Una scrollata di testa, un’alzata di spalle e poi via, ciascuno per la sua strada a pensare ai fatti propri e a leccarsi le ferite.
Invece no, proprio quando tutto sembra perduto, abbandonato, rinunciato ecco che avvertiamo sorgere un moto di ribellione, questa scossa tellurica che trova origine nel profondo. E’ una forza irrazionale e al tempo stesso terribilmente logica, un magma di sentimenti di giustizia, di verità, di ritrovato coraggio e libertà che ci fa alzare la testa, stringere i pugni, restare in piedi mentre tutti si siedono. Una voce che si fa forte nella gola. Sentiamo noi stessi pronunciare parole che mai avremmo immaginato di poter dire. Ecco l’uomo in rivolta, la ribellione che avanza, sì la ribellione, un sentimento per gente semplice, per nulla abituata ai raffinati cerimoniali delle stanze del potere. Ecco la ribellione, un moto viscerale magari anche un po’ plebeo ma che svela in noi una voglia di bellezza, di purezza, di nobiltà morale che non può essere soffocata.
Qui sta un secondo motivo della mia simpatia verso la definizione del Devoto Oli: ribellione verso quanto “offende la dignità”. Mi piace pensare che esiste in ciascuno di noi una dimensione inalienabile e imprescindibile di dignità. Per quanto oppresso, vilipeso, insultato, sbeffeggiato, ridicolizzato l’uomo mantiene nel suo fondo una dignità che nessuno potrà mai strappargli. Nello scrivere queste parole mi passa davanti agli occhi l’immagine del celebre dipinto di Antonello da Messina che ritrae un uomo bastonato, flagellato, deriso, appena condannato a morte. Eppure un uomo. Anzi: l’Uomo! Ecce Homo, ecco l’uomo, uno sguardo pieno di dignità, intenso, profondo, buono. In quel volto tutti gli uomini possono riconoscersi, tutti gli uomini che hanno sofferto, tutti coloro che hanno patito, quelli che per qualche motivo sono stati sconfitti: in quella dignità che non accetta di essere cancellata dalle botte una grande speranza – anzi una promessa – di riscatto. La dignità dell’uomo è una dimensione che ci appartiene fino al giorno in cui moriremo anche se a volte sembriamo piuttosto degli animali, dei rettili viscidi che strisciano sulla pancia, esseri mediocri e infingardi, mascalzoni di lungo corso… E invece no, per ciascuno c’è una dignità nascosta da riconquistare, un no da pronunciare a voce alta, una ribellione in agguato contro le nostre stesse debolezze, una promessa di nobiltà che possiamo conseguire.
Infine un terzo motivo di simpatia per quanto scrivono Giacomo Devoto e Giancarlo Oli: “la dignità propria e degli altri”. Qui sta una grandezza ancora più alta: la ribellione non solo per quando veniamo toccati nel nostro interesse ma quando viene fatto un affronto alla dignità degli altri. C’è in questa idea il senso di una solidarietà più vasta tra gli esseri umani, l’idea di una comunità alla quale tutti apparteniamo, che non è fatta solo di aspetti linguistici, di cittadinanza politica, di rapporti economici o commerciali. No qui c’è una comunanza fondata sulla medesima dignità, sul fatto che condividiamo tutti, nessuno escluso, questa similitudine di essere uomini: i ricchi e i pezzenti, gli esploratori e i burocrati, i nomadi e i periti tecnici, i padani e i rom….tutti simili, tutti portatori nel fondo di queste gemme che formano un’unica corona. Chi offende la dignità di un altro offende anche la mia così come chi strappa una pietra dalla corona ne ruba un pezzetto anche alla mia. Ecco, dunque, che di fronte ad un’offesa che pure non sembra riguardarmi, sento l’indignazione risvegliare in me quell’esercito di terracotta che pareva sepolto per sempre e che riprende risoluto una marcia che mi porterà ad una battaglia cruciale.
Si può davvero provare questa indignazione? Si deve!
Possiamo restare indifferenti di fronte alle torture nel carcere di Abu Ghraib? Alla prigionia senza leggi di Guantanamo? Alle impiccagioni di giovani omosessuali nelle piazze di Teheran? Alla pulizia etnica di Srebrenica? Certo che no. Qui la ribellione è necessaria come cercare l’ossigeno quando si ha la testa sott’acqua. Ma ci sono altre situazioni più subdole dove la nostra coscienza è più facilmente anestetizzata. Quando assistiamo a certi compromessi, piccole corruzioni, aggiustamenti furbi. Quando accettiamo la logica di chi sostiene che non ci sono differenze, che tutte le politiche sono uguali, che la giustizia non esiste e la verità, figuriamoci….! Frasi come tarli, che corrodono e corrompono, poco a poco, giorno dopo giorno. Abolire la verità: un modo come un altro per insinuare che non esiste neppure la menzogna e dunque che ogni offesa, ogni ingiuria, ogni imbroglio sono leciti.
Sto dalla parte di quelli che ritengono che a questo mondo siamo tutti eguali (nei diritti, nella dignità, nei doveri) ma che al tempo stesso siamo tutti diversi e che queste diversità devono essere riconosciute e rispettate. Non mi piacciono, ad esempio, quelli che dicono che gli scout sono come tutti gli altri (evviva! Meno male…..). Ho conosciuto degli scout come Vittorio Ghetti, Arrigo Luppi, Carlo Verga che hanno rischiato la loro vita per mantenere fede all’impegno della loro Promessa quando sarebbe stato preferibile stare a casa e andare a marciare con gli altri Balilla. Degli scout come Don Peppino Diana che si sono fatti ammazzare piuttosto che accettare le intimidazioni della camorra. Degli scout che con gran semplicità e senza clamore tornano a casa la sera e invece che guardare il televisore si mettono a preparare il grande gioco di domenica…
Non mi piace che si dica che sono uguali a tutti gli altri. Anzi, ad essere sincero questo mi indigna. E’ come negare la loro esistenza, disconoscere un impegno, un sacrificio, un sogno.
Non mi piacciono quelli che affermano che tutti gli insegnanti sono uguali. Ci sono insegnanti che amano i loro ragazzi come se fossero loro figli. Per loro fanno il tifo, anche quando fioccano i quattro perchè sanno che c’è differenza tra amore, complicità e compiacenza. Negare questa dedizione, quest’amore mi indigna.
Non mi piace che si dica che tutti i politici sono uguali. Ci sono uomini politici che hanno il coraggio di dire la verità ad un paese che vorrebbe vivere solo di reality show e di veline e che pensano a costruire un futuro anche per chi desidera non essere disturbato dalle sue visioni allucinate e deformate di un presente catodico e surreale.
Dire che sono uguali a quelli che su quel tubo catodico lucrano e fanno affari mi indigna.
Allo stesso modo non sono tutti uguali i medici, i panettieri, i lustrascarpe…. Nelle persone e nelle situazioni ci sono delle differenze e ciascuno di noi può fare quella differenza.
Il nostro è un paese che ha bisogno di ritrovare della dignità. Tutti noi, singoli cittadini di questo mondo, dobbiamo ritrovare il gusto e la voglia di dignità. Per noi stessi e per chi ci ritroviamo vicino. Magari un semplice lavavetri, un operaio rumeno, il direttore di una banca, una prostituta nigeriana, l’impiegato delle poste… Si dignità, questa parola così fuori moda e persino derisa. Forse non a caso perché il modo più semplice per tirare la riga dritta e fare camminare tutti alla stessa maniera sta proprio nel dire che la dignità non è una cosa buona anzi è ridicola e dunque fatevi avanti signore e signori, vediamo chi accetta la prossima umiliazione….Invece la dignità è l’amore per le cose ben fatte, l’amore per la bellezza, l’amore per le cose difficili, per quelle nascoste, per quell’impero dei sentimenti che portiamo timidi e giovani nel cuore. L’indignazione è la ribellione verso ciò che nega la grandezza di quell’impero, verso il ghigno beffardo di chi prova soddisfazione a vedermi caduto, verso il compiacimento dell’altrui sconfitta.
Amare gli uomini significa onorare la loro dignità. A noi giovani ribelli e custodi di quell’impero l’avventura di vivere, lottare e costruire un mondo che non abbia più bisogno dell’indignazione per stare in piedi.
Roberto Cociancich