Roberto Cociancich
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Non maledire questo nostro tempo
Lettera di mio figlio Pietro:
“Mia piccolissima riflessione sulla Resistenza, che se tu leggessi mi farebbe piacere. Il titolo già spiega tutto.
25 APRILE
Non mi è molto facile parlare con serenità della Resistenza.
Un tempo, certo, mi era più semplice farlo. L’istruzione elementare non ti dà poi adito a tanti dubbi, tanto per intenderci, così come la vulgata popolare. Era tutto abbastanza chiaro: da una parte c’erano i tedeschi cattivi e dall’altra i partigiani buoni (tendenzialmente comunisti). In un’epoca in cui nutrivo sentimenti fortemente antiamericani e vagamente filo-comunisti (per quello che potevo capire io, da ragazzino supponente di 12 anni) ciò bastava e avanzava. Ma già negli anni delle medie (quegli orrendi e tristi anni) il seme del dubbio era entrato nel mio cuore, e la serenità e linearità di giudizio era stata compromessa.
Cos’era successo? Semplicemente, avevo capito appieno cosa voleva dire chiamarsi “Cociancich”. Pian piano appresi e capii cos’era avvenuto nella terra di mio nonno, di suo padre e di suo nonno, delle tragedie del genocidio e dell’esodo, degli autori di quei crimini e di chi in Italia li aveva coperti e (forse) sostenuti in nome dell’Avvento del Socialismo. Quando mi resi conto che il genocidio di Italiani era stato volutamente coperto e fatto dimenticare per non offuscare l’immagine della Resistenza, quando capii che a massacrare e infoibare erano stati dei partigiani, quando seppi che ancora oggigiorno c’è chi nega e chi giustifica ammantandosi di antifascismo… allora la Resistenza mi apparve sotto una luce più sinistra, più falsa. Sicuramente non mi sono mai più considerato nemmeno lontanamente filocomunista. Ancora oggi, le responsabilità antiche e il negazionismo/giustificazionismo odierno m’impediscono di avere un rapporto sereno con la sinistra italiana (a ciò si è aggiunta, col tempo, una mia netta condanna del comunismo per ragioni anche filosofiche e soprattutto religiose).
La storia della mia famiglia, la vita di mio nonno e dei suoi parenti è stata sconvolta e stravolta dalla Resistenza, e per giunta incolpevolmente. Questo è un dato di fatto. Ma se consideriamo trascurabile la singola vicenda della mia famiglia, non può esserlo quella di altre 350.000 persone scappate da un’odiosa tirannide comunista nata dalla Resistenza, né quella di 17.000 persone uccise nei modi più crudeli e fantasiosi. È una macchia nera, e per giunta è indelebile.
Il discorso si può poi estendere alle tante persone uccise (non sempre con fondati motivi) nelle sommarie rese dei conti nei mesi e nei primi anni dopo la fine della guerra. Normale (ahimè) e inevitabile strascico di una guerra civile? Certamente, ma si tenga conto che la retorica resistenziale considera ingiusto il termine “guerra civile”, perché quella “fu una guerra di liberazione”. E d’altro canto, il normale strascico d’una guerra civile non giustifica il massacro da parte delle bande comuniste d’altre formazioni partigiane, come la strage di Porzûs ai danni della brigata Osoppo. In un recente libro di Emanuele Luzzatto, si racconta come nella piccola formazione cui prese parte Primo Levi poco prima di essere catturato e internato nei lager, vennero giustiziati due membri della banda, per poi essere fatti passare come vittime del fascismo. Va detto che quest’ultimo libro è stato accolto da un gran numero di critiche, che insistono soprattutto sul concetto “che senso ha rivangare queste storie?”. Come dire: sono cose che sappiamo già, quindi non dirle in giro.
D’altronde, citare eventi oscuri e ambigui nella vicenda resistenziale viene visto con antipatia dall’ANPI, che non ama molto il “revisionismo storico”.
Ci è poi voluto del tempo per realizzare che, alla fine dei conti, i partigiani avevano liberato proprio poco. La maggior parte del lavoro lo fecero gli Alleati. Qualsiasi libro di storia militare della Seconda Guerra Mondiale lo dimostra ampiamente, e tratta l’esperienza partigiana in pochissime righe. È risaputo che l’unico paese che riuscì a liberarsi pressoché integralmente per merito della lotta partigiana fu, ahinoi, la Jugoslavia. E in Italia non ci fu mai una figura pari a Charles de Gaulle, che condusse la Resistenza in Patria seduto quasi come un pari tra gli Alleati.
In definitiva, non mi è facile parlare con serenità della Resistenza. Il fatto che poi le celebrazioni del 25 aprile siano in generale vissute come una “festa dei comunisti” non aiuta più di tanto. Alla manifestazioni di ieri, tra le varie cose, ho visto ritratti di Stalin, bandiere della Corea del Nord, un tizio vestito da soldato sovietico sventolante la bandiera rossa… la cosa che mi consola è che tutti i potenziali elettori comunisti d’Italia erano racchiusi lì in quella piazza, e che non ce n’erano altri in giro.
Tutto ciò però non riesce (ed è sempre questo mio oscillare da una parte all’altra a essere faticoso) a farmi avere una condanna storica per la Resistenza.
Diciamoci la verità: nel 1940 l’Italia entrò in una guerra che non poteva vincere, e che infatti perse con ignominia. Estese un conflitto già grave e lo portò nei Balcani e in Africa. Aerei italiani volarono sopra Londra, soldati italiani percorsero le steppe russe. Nonostante gli indiscutibili atti di valore (il sacrificio della Folgore, la carica di Izbušenskij, l’eroismo degli Alpini, la resistenza sull’Amba Alagi, l’immenso Amedeo Guillet, di cui consiglio di conoscere le gesta) subimmo rovesci su ogni fronte. Quel ch’è peggio, combattevamo in una guerra sbagliata, e dalla parte sbagliata. Certe persone sembrano dimenticarselo, ma stavamo dalla parte della Germania di Hitler. E la Germania nazista di Hitler aveva come modello primigenio l’Italia fascista di Mussolini.
Il Fascismo (anche se è impossibile che abbia fatto solo cose cattive) fu un regime violento e prepotente, forte con i deboli e debole con i forti. Utilizzò sistematicamente la violenza come tattica politica, assassinò o internò i dissidenti, cancellò la libertà di stampa e di opinione, bandì praticamente tutte le organizzazioni che non potevano essere controllate, attuò miopi e ottuse misure di centralismo linguistico e culturale, condusse guerre di sopraffazione in Europa e Africa. Poi si alleò con la Germania, di cui divenne succube servo: testimone ne è la promulgazione delle leggi razziali. Questo andazzo proseguì con la Repubblica Sociale Italiana, i cui soldati (quelli chiamati “i ragazzi di Salò”, per darne un’immagine edulcorata; come chiamare le SS “i ragazzi di Norimberga”) venivano usati più che altro come polizia militare, per rastrellare gli ebrei da mandare nei lager e per combattere i partigiani.
Ebbene, di fronte a un quadro italiano così desolante, la Resistenza ha un altissimo valore.
Ci mostra che non tutti gli Italiani furono complici di quell’orrore. Che l’Italia non era solo una patria di servili opportunisti, di crudeli vigliacchi, di stupidi fanfaroni (i begli esempi datici dai gerarchi fascisti – anche quelli che sfiduciarono Mussolini – e dalla monarchia). Chi combatté il fascismo soffrendo e patendo (nell’inverno 1944-1945, per esempio) lo fece perché sperava nel suo cuore di far nascere un’Italia più giusta e più bella, più fresca e libera. Certo, molti si prospettavano l’agghiacciante idea di portare il Comunismo, ma non fu per tutti così. Sappiamo anche che molti dei valori che animarono i resistenti contribuirono (al di là della retorica) alla stesura della Costituzione, che probabilmente non è la “più bella del mondo” (io non sono uno di quelli che la adora in modo mistico e religioso) ma fa comunque la sua porca figura.
Quando penso alla Resistenza mi vengono in mente anche altri esempi: la divisione Acqui di Cefalonia, che non volle unirsi ai tedeschi e fu per questo annientata; il mio bisnonno Giovanni Ballone, socialista, che non volle prendere la tessera del fascio e non iscrisse mia nonna alle Piccole Italiane, portandola a essere discriminata a scuola; il mio bisnonno Egidio Nicoletti, democristiano milanese tutto d’un pezzo, che ogni tanto veniva portato alla Casa del Fascio per passare qualche notte in cella; le Aquile Randagie, gruppo di ragazzini milanesi e monzesi che dal 1928 (millenovecentoventotto, non so se mi spiego) continuarono a fare gli scout clandestinamente, rischiando la galera e le botte, e riuscendo addirittura a mandare alcuni dei loro ai grandi raduni internazionali del 1933 e del 1938.
Non mi è facile parlare con serenità della Resistenza. Ma sono cosciente che ha riscattato l’Italia da un ventennio ignobile e vergognoso, con il quale molti di noi non sono ancora riusciti a venire ai patti. Io condanno fortemente le storture e le ambiguità che la Resistenza si è portata dietro nei decenni (così come le persone che le ignorano volutamente o financo le sostengono), ma non posso e non voglio condannare un’esperienza così nobile e alta. Se oggi ci possiamo permettere di vaneggiare che “siamo ancora sotto un regime” o di scrivere banalità come quelle di queste righe, lo dobbiamo anche al sacrificio di quei giovani che 70 anni fa prendevano la via delle montagne, sperando di poter costruire un’Italia migliore di quella in cui avevano vissuto sino a quel giorno.
Non maledire questo nostro tempo,
non invidiare chi nascerà domani
chi potrà vivere in un mondo felice
senza sporcarsi l’anima e le mani.
Noi siam vissuti come abbiam potuto
Nei giorni bui senza libertà.
Siamo passati tra le forche ed i cannoni
Chiudendo gli occhi e il cuore alla pietà.
Ma anche dopo il più freddo degl’inverni
Ritorna sempre la calda primavera,
la nuova vita che comincia stamattina
in queste mani sporche ha una bandiera.
Non siamo più né carne da cannone
Né voci vuote che gridano di sì;
a chi è caduto per la strada noi giuriamo:
pei loro figli non sarà così!
Vogliamo un mondo fatto per la gente
Dove ciascuno possa dire “è mio”,
dove sia bello lavorare e far l’amore,
dove il morire sia volontà di Dio.
Vogliamo un mondo senza patrie in armi,
senza confini tracciati coi coltelli;
l’uomo ha due patrie: una è la sua casa,
l’altro è il mondo, e tutti siam fratelli.
Vogliamo un mondo senza ingiusti sprechi
Quando c’è ancora chi di fame muore.
Vogliamo un mondo in cui chi ruba va in galera
Anche se ruba in nome del Signore.
Milano, 26 aprile 2013
Il tempo del coraggio e delle mimose
Forse vi sembrerà strano ma a commento di questa settimana che ha visto vicende importantissime quali l’elezione, l’insediamento del Presidente della Repubblica e la nascita del nuovo Governo vorrei cominciare scrivendo di tutt’altro. Mi riferisco alla vita avventurosa e tragica di Teresa Mattei una ragazza di Firenze che ebbe un ruolo importante durante la Resistenza e nella fase Costituente della Repubblica. A chi domandasse il perché risponderò che questa è stata anche la settimana in cui si è celebrato il 25 aprile e che di Teresa Mattei è stata fatta una commemorazione ufficiale in Senato (qui i discorsi, leggeteli: alcuni sono davvero belli).
La verità però è più semplice: questa storia mi ha profondamente affascinato e nelle sue contraddizioni scorgo un segno che ci aiuta a capire il tempo che viviamo. Forse anche a scorgere una prospettiva per il nostro tormentato futuro. Teresa faceva parte di una famiglia antifascista, frequentava La Pira, Don Mazzolari, Natalia Ginzburg, Pietro Calamandrei… Suo padre la portava con sé fin da piccola in azioni temerarie. Venne arrestata al ritorno da un viaggio in Francia durante il quale aveva consegnato dei soldi in una valigia ai fratelli Rosselli. Fu torturata e violentata, riuscì a fuggire con l’aiuto di un gerarca fascista impietosito dalla sua giovane età. Suo fratello Gianfranco decise di suicidarsi nella prigione di Via Tasso per non rischiare di confessare sotto la tortura dei nazisti i nomi dei suoi compagni. A sua volta Teresa compì un atto terribile: indicò ai partigiani le informazioni necessarie per uccidere il filosofo Giovanni Gentile, suo professore all’Università, reo di essersi schierato con la Repubblica di Salò. Fu un atto barbaro, condannato dallo stesso CLN della Toscana. Così facendo prese su di sé il peso e le contraddizioni di chi è al tempo stesso vittima e carnefice, di chi porta tra le mani la giustizia e l’ingiustizia, il seme di quel conflitto tra due parti del nostro Paese (fascisti/antifascisti, comunisti/anticomunisti) che a distanza di sessant’anni non sembra essere ancora totalmente ricomposto. Le vicende convulse che hanno caratterizzato l’elezione del Capo dello Stato ne sono la conferma: alla proposta di eleggere Prodi il centrodestra ha risposto parlando di golpe e invitando tutti a fuggire all’estero; erano solo pochi giorni fa. Alla proposta di eleggere Napolitano altri hanno a loro volta evocato il golpe, il tradimento e la morte della democrazia. Sapremo mai risalire l’abisso della discordia?
Ma fermiamoci un istante: la vita di Teresa Mattei è stata anche quella di chi si è impegnata per i diritti delle donne, dei bambini e dei disabili, di chi si è battuta perché nella Costituzione venisse precisato che è compito della Repubblica rimuovere tutti quegli ostacoli che di fatto impediscono l’uguaglianza tra i cittadini (dunque che non bastano le garanzie formali ma che bisogna andare al nocciolo concreto delle questioni). Che la questione non fosse di poco conto lo sperimentò ancora una volta sulla sua pelle quando, dopo essere rimasta incinta ad opera di uno uomo sposato, venne esclusa dalla vita parlamentare. Essere ragazze madri era uno scandalo inaccettabile per Togliatti e il PCI. Di certo un trattamento del genere non sarebbe stato riservato ad un uomo. Pronta la risposta che diede a quel aun parlamentare liberale che le disse: «Signorina, lei non sa che in certi giorni del mese le donne non ragionano?». E lei rispose : «Lei lo sa che ci sono degli uomini che non ragionano mai per tutto il mese?».
A Teresa Mattei dobbiamo l’introduzione della Festa delle Donne l’8 marzo e il simbolo del fiore di mimosa per ricordarla.
Non mi pare dunque esagerato affermare che la vita di Teresa Mattei si intreccia con molte delle situazioni irrisolte del nostro Paese, da quelle politiche legate ad un conflitto tra due parti che non accettano di legittimarsi reciprocamente, a quello dei pregiudizi culturali, sessisti, razziali che oggi ancora ci dividono. Ne sono una prova, se mai ce ne fosse stato bisogno, le dichiarazioni vergognose rese oggi da Matteo Salvini, noto esponente della Lega Nord, in merito alla nomina di Cècile Kyenge a Ministro dell’Integrazione. Di fronte all’ondata di critiche di coloro che vedevano nelle sue dichiarazioni un evidente segno di razzismo, Salvini ha sentito il bisogno di precisare che non ce l’aveva con lei perché era nera ma perché si sarebbe occupata di integrazione… A volte le rettifiche sono peggio delle dichiarazioni che si vogliono rettificare.
Eccoci dunque arrivati alla questione del nuovo Governo formato da Enrico Letta. Ci sono voluti oltre 60 giorni, infiniti contorcimenti linguistici, dirette streaming, la sostanziale decapitazione di buona parte della classe dirigente del PD, la strigliata del Presidente della Repubblica, la contestazione della piazza, la marcia su Roma di Grillo, 101 franchi (e codardi) tiratori, migliaia di e-mail che invocano alla disobbedienza, sogni indicibili di vecchi politici, veti e ricatti. Ma alla fine ci siamo arrivati. C’è un Governo, ci sono dentro anche molte belle facce, nei prossimi giorni sentiremo anche i programmi. Chi pensa che il problema dell’Italia sia di dare un futuro e un lavoro ai propri figli, di superare quelle contrapposizioni che hanno paralizzato la vita politica degli ultimi sessant’anni, di ridare fiato e speranza ad un Paese prostrato forse ha motivo di essere soddisfatto. Chi pensa che il problema sia di mandare in carcere Berlusconi per le sue malefatte probabilmente no. Per quanto mi riguarda vorrei spendere il meglio delle energie che possiedo e che possediamo per fare bello, giusto, prosperoso il nostro Paese, dargli ruolo e grandezza tra i Grandi d’Europa, promotore di dignità e giustizia tra i popoli del mondo. Lascerei invece rammarichi e rancori ai vecchi e ai protagonisti di una politica angusta che ha ormai ben poco da raccontare. Il tempo dirà se questo Governo sarà davvero capace di affrontare efficacemente i problemi che ci troviamo davanti. Io vorrei che davanti a noi si aprisse una stagione di primavera, di conquiste sociali reali che di fatto cambino il nostro Paese, di sviluppo economico, di rinnovamento culturale, di riforme istituzionali. Teresa Mattei che molto ha vissuto direbbe forse: “un tempo di coraggio e di mimose”.
Dagli altari alla polvere
In poche ore nascono e muoiono candidature, speranze, progetti a lungo preparati. Ieri Prodi, sugli altari alla mattina, nella polvere a metà pomeriggio. Eppure si trattava di un uomo di grande esperienza internazionale, di prestigio per la storia non solo del suo partito ma dell’intero Paese. Quindi Bersani che annuncia le dimissioni da segretario del partito e al tempo stesso le speranze di diventare Presidente del Consiglio. Forse coloro che volevano un Governo con il M5S non si sono resi conto che il voto su Rodotà avrebbe portato alla fine di colui che maggiormente aveva scommesso su di una alleanza con loro. Il clima è pesante, per alcuni una vera e propria tragedia. Tragedia che però diventa grottesca quando, messisi alla ricerca dei colpevoli, alcuni grandi elettori di lunga anzi lunghissima militanza parlamentare puntano il dito contro i renziani, gli unici che da mesi si sono spesi per l’elezione di Romano Prodi. Io l’ho votato, pur ricevendo decine di sms e messaggi che mi invocavano di non farlo, nella convinzione che nella crisi attuale ci vuole una persona di esperienza con caratura internazionale, che sappia tenere la barra ( e la schiena) dritta. Ora ci si rivolge al Presidente della Repubblica Napolitano che nonostante la fatica di questo lungo settennato forse si accollerà un supplemento di fatica indicando condizioni stringenti politiche e di tempi . Sarà lui, confido con tutto il cuore, ad accompagnarci con la sua saggezza fuori dalla seconda Repubblica verso una nuova fase della storia del nostro amato Paese.
Lettera da Baltimora
Scrivo queste righe rientrando da un breve viaggio a Baltimora, Maryland: in me l’eco di storie di splendore e di degrado, di rinascita e criminalità, di politica e religione. Due le immagini che mi sono rimaste più impresse nella mente: l’entusiasmo all’aeroporto dei comitati di accoglienza di alcune truppe che tornano dall’Afghanistan: bandiere e cartelli di benvenuto dappertutto, ragazzine bionde che strillano impazzite, Miss Teen Maryland dai tacchi vertiginosi, generosa di sorrisi e foto ricordo ai reduci. Tutto questo, non lo nego mi mette allegria (nonostante siano per me le 5 di mattina). La seconda immagine è solo un frammento: la nostra auto che attraversa una periferia della città a velocità moderata, casette tristi di mattoni, un muro basso, la sagoma improvvisa di un ragazzo che fa capolino col braccio alzato, il rumore di una pietra scagliata sul parabrezza. Ecco dunque che si confermano i luoghi comuni su questo grande Paese. Una nazione che crede in sé, nel proprio mito, nel proprio futuro, che coltiva nel segno della propria bandiera il sentimento di comunità fra popolazioni eterogenee, il trionfo dell’entusiasmo, dell’ingenuità, del kitsch. Al tempo stesso una società dalla violenza nascosta e diffusa, una riconciliazione tra culture e classi sociali che non si è ancora compiuta. Immagini contrastanti lo so, esito nel dire quale sia la più veritiera. Scelgo, infine, quella del Paese che nel bene e nel male esprime vigore ed entusiasmo, passione e volontà malgrado tutto. Una miscela che farebbe del bene anche alla nostra amata Italia.
A Baltimora ho presieduto, insieme a Bray Barnes, una riunione del Comitato Mondiale CICS, con Antony Thng da Singapore, Rolando Rocha dalla Bolivia, Gerry Glynn da Dublino e Hubert Douampo dalla Costa d’Avorio. Tante idee, progetti, programmi, tanti problemi e criticità locali. Continua con entusiasmo l’organizzazione di un grande incontro mondiale a Gerusalemme nel gennaio 2015 insieme agli scout cattolici, ortodossi, protestanti, ebrei e mussulmani. Il motto è “keep the lamp burning” , tradurrei : tieni viva la tua fiamma. Un messaggio per gli scout certo ma che potrebbe essere esteso anche a tante altre situazioni: tieni viva la fiamma della tua fede, delle tue convinzioni, della tua voglia di cambiare il mondo con la forza di un sorriso, di dare un calcio all’impossibile, di impegnarsi concretamente per rimuovere alcune strutture di ingiustizia e di degrado, di promuovere un benessere sociale più diffuso. Parole ingenue da boy scout? Può darsi, il tempo dirà cosa saremo stati capaci di fare, della qualità dei nostri sogni e della nostra volontà di realizzarli. Di questo scriverò ancora molto nelle prossime news.
Rientro in Italia, sosta tecnica a Milano, cambio valigia e poi a Roma direzione Senato. Cosa è successo di rilevante dopo l’ultima Roberto’s e-voice? Segnalo: Dopo l’approvazione definitiva del Parlamento il Governo ha varato il decreto che rende disponibili 40 miliardi di Euro per i pagamenti dei debiti della Pubblica Amministrazione nei prossimi 12 mesi. Si tratta di una manovra di rilevante entità economica che se attuata celermente dovrebbe dare un effettiva boccata d’ossigeno (anche qualcosa di più) a tutte quelle imprese che dopo aver vinto – spesso con grande impegno e fatica – gare d’appalto e lavorato per lo Stato non hanno poi ricevuto nemmeno un centesimo e si trovano ora a a rischio di dover chiudere (se non lo hanno già fatto). Verranno pagati prima i debiti più vecchi poi quelli più recenti, prima quelli verso le imprese poi quelli verso le banche. I comuni virtuosi che hanno liquidità in cassa potranno pagare subito, gli altri dovranno chiedere un prestito al Ministero dell’economia che li erogherà direttamente o attraverso la Cassa Depositi e Prestiti. Che si debba fare presto ce lo ricorda anche la cronaca in certi casi davvero dolorosa: nessuno di noi può dimenticare la vicenda dei tre imprenditori che si sono tolti la vita per problemi economici a Civitanova Marche e già siamo raggiunti da notizie altrettanto tragiche in Sardegna, Lombardia e Veneto. Di fronte a questi fatti tragici l’impressione di essere finiti in un vicolo cieco dal punto di vista politico è particolarmente frustrante anche per chi è come me appena arrivato in Senato. Con alcuni amici “renziani” abbiamo cercato di dare un segnale che considero doveroso dal punto di vista sia morale che politico presentando subito un disegno di legge per l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti che oggi viene chiamata “rimborso spese elettorali”: peccato che per avere i soldi non ci sia bisogno di alcun giustificativo e presumibilmente neppure di alcuna spesa. In pratica è un vero e proprio finanziamento in barba al referendum che lo aveva abolito alcuni anni fa. La nostra proposta è di rendere volontario (e non automatico come è oggi) il contributo ai partiti, applicando un meccanismo che riconosce un credito di imposta fino al 95% per chi volesse fare una donazione sino a 2000 Euro. Vogliamo quindi privilegiare i piccoli contributi, anche di poche decine di Euro. Dunque l’esatto contrario di quel che hanno sostenuto alcuni dirigenti del PD forse male informati secondo i quali si vuol permetter di fare politica solo ai ricchi e a chi dispone di grandi patrimoni. La nostra proposta punta sul contributo e la partecipazione di tanti piccoli finanziatori, dunque un sistema di popolo e non di élite o di casta (che con il sistema attuale si assai diffusa). Avevamo detto in campagna elettorale che ci saremmo battuti per cancellarlo e questo dunque stiamo ora facendo. Anche se la cosa non è stata condivisa dai cosiddetti “Saggi” nominati da Napolitano e tantomeno a numerosi colleghi senatori che sembra si siano piuttosto adirati per questa nostra iniziativa noi insistiamo (ecco il nostro comunicato). Forse qualcuno non ha ancora ben chiaro che se non siamo capaci di dare una vera sterzata che – attraverso comportamenti più sobri e coerenti – ridia credibilità alla classe politica, qui in gioco non entreranno solo i soldi alle casse dei partiti ma l’intero sistema democratico. Alcuni segni, alcune crepe ci sono già e sono assai preoccupanti.
Stupisce dunque che in questa situazione alcuni esponenti di primo livello del Partito Democratico trovino il tempo di polemizzare con espressioni grevi al limite dell’insulto e cadenza ormai quotidiana con il Sindaco di Firenze il quale, dopo aver dato generosamente tutto il sostegno che poteva all’attuale Segretario, si trova ad esserne premiato con epiteti gratuiti e degradanti. Viene oggi rimproverato a Matteo Renzi di dire a voce alta ciò che i cittadini (e francamente diciamolo: anche i Deputati e i Senatori) si dicono ogni giorno sull’autobus, in ufficio, nelle pause caffé. Sembra ancora una volta di rivivere la storia del bambino che ebbe il coraggio di dire al passaggio del sovrano che il re era nudo. Se poi qualcuno che aspira al seggio più alto della Repubblica non si fosse riconosciuto nelle parole a volte impertinenti del sindaco più popolare d’Italia aveva un’ottima occasione per replicare con quel garbo e quell’ironia che ci si aspetta dalla più alta carica dello Stato. A quest’ultima spetterà di dipanare nel prossimo settennato ben altre e più complesse situazioni. Un’occasione che poteva dunque dimostrare che di quella carica si era meritevoli candidati. Spiace dirlo ma purtroppo quell’occasione è andata decisamente sprecata. Guardiamo adesso a come si svilupperanno i fatti nelle prossime ore. Fervono in questo momento colloqui, telefonate e incontri di ogni tipo. Da come riusciremo ad eleggere il Presidente della Repubblica si capirà se riusciremo a formare subito dopo un Governo duraturo e le sorti di questa legislatura nata con le gambe gracili. Nonostante tutto guardiamo al futuro con ottimismo e la voglia di fare del nostro meglio. E’ il meglio che possiamo fare.